Incontro con Michele Placido
Pubblichiamo parte dell’intervista a Michele Placido inserita nel numero 34/35 di Cinecritica
Come mai da dieci anni a questa parte c’è stato il passaggio alla regia? Hai sentito l’esigenza di raccontare cose diverse? Puoi descriverci questa decisione?
A distanza di anni posso dire che quando è arrivato quel momento non mi facevo domande, non volevo cambiare il mio modo di vedere il cinema. Ho fatto tutto con molta passione: poi certe decisioni nella vita si prendono perché si vivono dei momenti storici, politici. De Sica quando cominciò a pensare di passare alla regia disse quello che dicono molti attori, cioè che ad un certo momento ci si stanca della propria immagine, ci si sente usurati. Si è diventati una sorta di clichè cinematografico e allora c’è la voglia di cambiare. Nell’anno del mio cambiamento, io mi stavo avviando verso la serie televisiva de La Piovra. Serie che mi ha dato grosse soddisfazioni sul piano professionale, soprattutto la prima che era stata elaborata da Ennio De Concini, Badalucco, Damiano Damiani, cioè da grossi nomi che venivano da un cinema importante che ammiravo. Poi nel susseguirsi la serie diventò un romanzane televisivo piuttosto che l’idea di partenza di Damiani che era notevole, cioè portare in televisione quello che lui aveva già raccontato al cinema. Insomma, io stavo in Sicilia a lavorare a La Piovra. Ed è nato tutto lì quando ho letto il libro Mery per sempre di Aurelio Grimaldi. Ho pensato che poteva essere un bel film. Una Sicilia diversa, molto più cruda rispetto a quella che stavamo noi in quel momento filmando. Avevo voglia di parlare in un modo più autentico di quello che accadeva in questa regione e mi permetteva di fare una cinematografia in un momento difficile per il cinema italiano. La Piovra si faceva in un periodo in cui il cinema civile in Italia non c’era più…c’erano piuttosto i Pierini e cose di quel genere. Per gli autori c’erano delle grosse difficoltà. In quegli anni, Marco Bellocchio era in una crisi profonda. Nessuno gli proponeva cose importanti. Anzi io ricordo che fui tra i produttori, insieme a Pietro Valsecchi, di un suo film difficile con Vittorio mezzogiorno: La Condanna. Film molto discusso, ma io dissi che bisognava aiutare gli autori quando erano discussi. Adesso è facile lavorare con Bellocchio ma all’epoca non era così.
Io avevo proposto a Pietro Valsecchi di fare questo Mery per sempre. Comprammo i diritti e poi trovammo Claudio Bonivento che ebbe fiducia nell’operazione. Così incominciò una vita nuova, perché il film andò molto bene anche per la regia di Marco Risi. Lì mi resi conto che si poteva fare qualcosa di diverso e nuovo. Allora mi venne l’idea di Pummarò che è stato il primo film italiano sugli extra-comunitari. Mi fu detto però che non avrei dovuto cambiare troppo. Bonivento e la Rai dissero che non sapevano quale sarebbe stato il riscontro del pubblico. Alla fine quando si dovette scegliere il regista dissero che dovevo essere io. E così debuttai in modo difficile. La sceneggiatura era di Rulli e Petraglia, che avevano già collaborato a Mery per sempre e a La Piovra. Erano miei amici ma mi trovavo un po’ a disagio con quella sceneggiatura e mi trovai a filmare alla giornata affidandomi soprattutto al protagonista del film, un non attore ghanese. Lasciai solo il tracciato della sceneggiatura e facendomi suggerire dal protagonista delle situazioni, ispirandomi a ciò che lui avrebbe fatto.
La scelta di passare dietro la mdp attraverso un’idea di cinema rigorosa, sociale e civile implica già una consapevolezza registica collegata alla tradizione del cinema civile italiano. Puoi raccontarci le motivazioni reali che ti hanno spinto ad esordire con questo tipo di cinema…
Probabilmente ero viziato dal cinema di alcuni signori come Bellocchio e Rosi. Poi pensiamo anche a registi come Monicelli che avevano grande etica. Sono stati uomini che mi hanno insegnato il mestiere, la serietà sul lavoro, nei rapporti con le maestranze, con i tecnici. Ma anche l’amore per il cinema e la consapevolezza dei limiti del cinema, nel senso del nostro cinema dal punto di vista dei mezzi. Proprio per questi limiti bisogna andare oltre con la nostra capacità, passione, fantasia.
Dunque, con una certa probabilità, ero stato politicizzato dal cinema di quegli anni. Questa è la verità. Fa parte della mia natura di essere uno che vive le stagioni e adatta la propria capacità professionale e tecnica a quelli che sono i tempi. In quel periodo ho creduto a quello che mi avevano insegnato i maestri e ho cercato di metterlo con grande onestà nel cinema che pensavo di fare. In quel momento la matrice politica era forte ed era giustificata dal fatto che veramente che questi maestri non avevano fatto solo dei film impegnati ma anche dei film belli. Se penso ai primi film di Rosi che penso siano tra i capolavori assoluti del cinema italiano…insomma ero stato allievo di questi cineasti ed è stato naturale fare questo passaggio in questo modo.
Qual è il tuo rapporto con la sceneggiatura. All’inizio ci pare di capire che l’hai subita, poi le sceneggiature sono diventate tue. Come utilizzi la sceneggiatura? Ti fai suggestionare dall’ambiente o ti basi sulla sceneggiatura in modo rigido?
Io non ho un metodo preciso…poi dipende dai collaboratori. Forse la matrice d’attore è quella che vince. L’attore all’italiana vive emotivamente. Quando faccio lo sceneggiatore in genere io propongo la storia, il soggetto. Dopo questo primo passo, gli sceneggiatori/collaboratori iniziano a scrivere. Dopo qualche settimana, io subentro. Anche se io non sono un uomo di penna ma di azione. Descrivo delle scene intere con dialoghi e vedendo le inquadrature, proponendole. Mi piace l’idea di fantasticare e di vivere da attore le cose. Durante le riunioni recito i dialoghi che loro hanno scritto e può succedere che i cambiamenti sono notevoli. Molte volte la recitazione sorprende i miei collaboratori per cui anche loro si rendono conto che devono correggere delle situazioni. Starnone, con cui lavoro ormai da qualche tempo, si è adeguato alla mia maniera. Sa che è una continua evoluzione. Fino all’ultima inquadratura del montaggio è probabile che io cambi qualcosa. Potrei stravolgere delle situazioni.
E sul set come ti comporti? Come sistemi la mdp?
Sicuramente cambio molto e cerco di dare qualcosa di più rispetto a quello che è il limite naturale della sceneggiatura. Al momento che stiamo nell’ambiente cerchiamo di legare l’ambiente al dialogo e alla situazione. Molte volte i miei attori diventano co-sceneggiatori sull’istante. Il problema è che quello che può sembrare bello sul piano emotivo magari esce fuori dal binario della storia. Una volta Asia Argento in un’intervista ha detto che nel film Le amiche del cuore aveva scritto metà della sceneggiatura. Ed era vero. Perché in quel film avevo chiesto alle ragazze protagoniste di partecipare all’elaborazione dei dialoghi. D’altronde per me e lo sceneggiatore era molto difficile entrare nella testa di ragazzine di sedici anni.
di Piero Spila