Due esempi di frontiere cine-belliche: Nema Problema e Radio West
Come si rappresenta e percepisce la guerra al cinema? Domanda amletica: non è semplice, oggi più di ieri. I confini tra realtà percepita e modo di rappresentazione, diventano sempre più indistinti. Il sangue, la sofferenza, l’odio etnico per la supremazia del potere, e il ragionamento politico-sociale che ne segue, visualizzato in sala, a volte spiazza per la sua spudorata sincerità. In altre occasioni si riesce solo a cogliere la parte falso-teorica degli avvenimenti, rimanendo legati ad un profondo sostrato filmico, fortemente standardizzato. Da un lato quindi, l’incursione del male si attua attraverso la documentazione nuda e cruda dei fatti (pensiamo a parte del cinema di Amos Gitai, o al lavoro di Michael Moore sul lato oscuro dell’America politica). Dall’altra assistiamo al prolifereare di un cinema di propaganda legato ad eroi ed eroine di stato. Fin qui considerazioni del tutto generali. In mezzo, tante piccole sfumature, modi di ragionare diversi, di cogliere lo shock (in)aspettato di uno sparo, di una bomba che esplode, e che rivive catarticamente, nell’obbiettivo della macchina da presa. Per un’analisi più dettagliata inviatiamo a leggere il saggio di Daniele Guastella, La guerra in movimento e la macchina spettatoriale, sull’ultimo numero diCineCritica.
Sono in sala in questi giorni due film italiani diversi nello stile e nella forma: Nema problema di Giancarlo Bocchi e Radio West di Alessandro Valori. Considerazioni critiche a parte, in questi due film, il conflitto bellico è analizzato seguendo due precisi indirizzi: il potere dell’informazione e le conseguenze devastanti della sua manipolazione, e la consapevolezza dell’essere presenti, (fisicamente e politicamente) come aiuto/forza. Due frangenti che vanno necessariamente posti in correlazione e antitesi, perché laddove l’uno è presentato in un determinato modo, l’altro ne risente, e viceversa. Nel film di Giancarlo Bocchi, documentarista di guerra (Un giorno a Gaza, 2001; Kosovo anno zero, 1999; Storie di Sarajevo, 1995), la storia e l’intreccio di due inesperti giornalisti (Lorenzi e Maxime), spediti dalle rispettive testate per raccontare l’irriconoscibile e martoriata Sarajevo, e svelare l’identità dello spietato comandante Jako, diventa la parabola concreta dell’attuale manipolazione dell’informazione sui fronti di guerra. L’intreccio narrativo pone la macchina da presa su una linea mediana che separa da un lato, la guerra, l’accaduto, e dall’altro, come questa può essere percepita dal pubblico mondiale attraverso la stampa. La verità è seduta accanto a noi, molto più vicino di quanto ci aspettiamo. Possiede un’unica forma, ma per chi la racconta diventa l’interpretazione esplosiva di un pezzo, o peggio, la reinterpretazione di uno status. L’ottica con la quale Bocchi riprende i personaggi in questa grande scacchiera, gli deriva dal suo passato di documentarista: l’assenza di musiche, e la prevalenza di suoni reali/irreali percettibili in qualsiasi momento, trasformano il film in una grande riflessione sui confini tra verità e menzogna. La morte arriva dalle parole, e dalle parole passa ininterrotta verso lo spettatore, l’ultimo fruitore di molteplici filtri.
Il film di Valori invece, analizza, seppur schematicamente, la storia di alcuni soldati italiani impegnati nel difendere i territori martoriati dalla guerra. In particolare, prende in esame i rapporti di tre soldati, differenti per grado, pensiero, e modo d’agire, e una ragazza serba, rifugiatasi con loro. Nessuno conosce a fondo l’altro, tutti si fidano di nessuno pur avendo voglia di ricostruire qualcosa insieme (?). Il film è sviluppato per gradi di consapevolezza, contraddicendo continuamente i presupposti dell’essere presenti. I conflitti interni al gruppo, che è attaccato continuamente attraverso un lavoro di sottrazione, diventano la misura di una continua incertezza sui ruoli e sulla necessità di un’azione diretta. L’idea politica e sociale rimane purtroppo, legata ad un ideale, forse quella più nazionalista e interventista, che si frappone all’interessante spunto della separazione totale dell’uomo e dei conflitti. Con questi due film non ci troviamo di fronte alla cronaca, che più che cinema a volte si profila come reportage di una finta necessità, ma ai mezzi con i quali la guerra entra di prepotenza nelle nostre vite. Specchio di una realtà sconosciuta, sempre, riflesso di un grido di aiuto, mai. Il cinema in quale confine si trova?
di Davide Zanza