Trevico-Torino secondo Scalfari
L’editoriale del ‘78 sul film di Scola.
“Martedì sera sul secondo canale della Tv è stato proiettato un film di Ettore Scola del 1971. S’intitola Trevico-Torino, viaggio nel Fiat-Nam. Finora aveva avuto una circolazione ristretta ai cinema d’essai; il suo arrivo in televisione ha messo sotto gli occhi di alcuni milioni di spettatori un film-testimonianza. Una testimonianza agghiacciante”.
C’è tutto lo stile del giornalista di razza (asciutto, elegante, diretto) nell’incipit dell’editoriale che Eugenio Scalfari volle dedicare alla “prima” televisiva di uno dei film meno conosciuti ma più coraggiosi ed efficaci di Ettore Scola. E al tempo stesso la forza dell’indignazione civile che promana fin dalle prime battute dell’articolo, pubblicato nella prima pagina di “la Repubblica”, il quotidiano da lui fondato due anni prima, il 5 gennaio 1978 con il titolo Da Trevico a Torino.
Le incursioni cinematografiche, benchè gradite, non risultano frequenti nella vasta bibliografia dell’autorevole giornalista appena scomparso, ma l’inconsueta scelta di “aprire” il giornale con la riflessione su un film nasceva da due circostanze significative, l’una contingente (la recente “democratizzazione” della RAI, iniziata con la riforma del ’76 che poneva fine alla ventennale egemonia – ma forse dovremmo dire “informazione di regime” – della Dc) e l’altra di più lungo respiro: la rilettura in prospettiva storica di uno dei processi più rilevanti e sofferti della giovane Italia repubblicana, l’emigrazione interna dal Sud al Nord del Paese.
“Non era mai accaduto che una fotografia così cruda di quella realtà entrasse nelle case di milioni di italiani con la forza dell’immagine”, sottolinea Scalfari esprimendo un apprezzamento incondizionato al film di Scola e alla scelta coraggiosa della Tv di Stato. “C’era stato, sì – aggiunge – vent’anni fa, il Rocco di Visconti e un altro paio di film della stessa forza; ma si era, allora, all’inizio del fenomeno; gli esiti erano ancora lontani e lo spettatore era portato a considerare la vicenda umana della emigrazione come cosa che riguardasse altri, che si svolgesse in un mondo separato e diverso. Di qui a confinarli nel folklore il passo era breve e infatti, più o meno consapevolmente, fu compiuto. La separazione tra le due Italie, tra le due società di cui sovente di parla, comincia da quel momento”.
Del film di Scola il direttore di “la Repubblica” non considera l’aspetto estetico-formale ma lo spessore politico e civile dell’ispirazione, in sintonia con quanto avevano osservato all’uscita del film, nel ’73, i maggiori critici cinematografici.
La fedeltà ad un contesto reale e poco conosciuto dal grande pubblico e la passione meridionalista di Ettore Scola risultarono da subito i pregi maggiori di Trevico-Torino, anche a giudizio dei critici fino ad allora severi verso il regista irpino, come Morando Morandini (che lo definì “un piccolo film che merita rispetto”) e Goffredo Fofi, che riconobbe a Scola il coraggio “di spostarsi dalla visione romana della realtà italiana verso la periferia; nello scoprire quantomeno una dimensione documentaria e di denuncia a partire da facce vere e strade vere; nel dire cosa è Torino oggi”. E tutti i critici più autorevoli, a cominciare da Alberto Moravia su “L’Espresso”, apprezzarono l’ispirazione e la forza espressiva di questo film “povero”, autoprodotto da una cooperativa di lavoro e girato in formato 16 millimetri.
La qualità tecnica non eccelsa; la scelta dei volti da riprendere in primo piano; la registrazione dal vivo e in presa diretta; le inquadrature nel classico stile da documentario: tutto ci riporta all’estetica del “cinema-verità” e rivela il carattere indipendente e low budget di Trevico-Torino, attraverso il quale Ettore Scola voleva portare all’attenzione nazionale, coniugandole già nel titolo, due questioni drammatiche e cruciali dei primi anni Settanta: la condizione operaia nelle fabbriche del Nord e l’emigrazione ininterrotta dalle campagne del Sud verso il “triangolo industriale”, in primo luogo a Torino, verso il “miraggio Fiat”.
Il titolo completo del film (Trevico-Torino. Viaggio nel Fiat-nam), vuole inoltre esprimere, attraverso un gioco di parole non molto originale ma di immediato impatto, il parallelismo tra l’evento bellico più doloroso e “mediatico” dell’epoca e la battaglia per il lavoro e i diritti che accomunava le masse operaie nella città della Fiat, luogo-simbolo dell’”autunno caldo sindacale” nel 1969, e il popolo contadino e proletario del Mezzogiorno che in quegli anni faceva esplodere la sua rabbia sociale da Reggio Calabria a L’Aquila, da Avola a Battipaglia, a stento repressa sotto i colpi della Celere.
Per queste ragioni il film è interamente ambientato a Torino, ma i protagonisti sono i lavoratori e i disoccupati venuti dal Sud, ospiti necessari ma indesiderati di una città nella quale si sentivano estranei e marginali, ghettizzati nelle periferie create su dal nulla e prive di servizi o costretti a passare la loro giornata tra la fabbrica, gli autobus e, per i più volenterosi, le scuole serali. È la Torino della Fiat padrona, del “non si affittano case ai meridionali”, della Juventus che la famiglia Agnelli imbottisce di calciatori meridionali per concedere una parentesi di svago e un riflesso di orgoglio identitario ai suoi nuovi operai.
Il passo più vibrante dell’editoriale di Scalfari riguarda appunto “le due Italie” e la pessima gestione del fenomeno migratorio da parte della classe dirigente (politica ma anche imprenditoriale) nel corso degli anni Cinquanta e anche oltre: “Tra il censimento del ’51 e quello del ’61 – scrive – emigrarono dal Sud al Nord e dalle campagne alle città 10 milioni di persone, delle quali due terzi di sesso maschile sotto ai quaranta anni. In quello stesso periodo Torino diventò la quarta città meridionale d’Italia, dopo Napoli, Palermo e Bari. Un terzo della popolazione meridionale in età di lavoro trasmigrò in valle padana, dove non trovò assolutamente nulla che potesse accoglierlo, niente case, niente trasporti, niente scuole, niente ospedali, niente strutture amministrative e assistenziali. Trovò lavoro, questo sì. Anzi, fu il lavoro che chiamò i «Napoli» dal tacco della penisola. Invece della zappa e del bidente, le presse la catena di montaggio. Gli «stregoni» che innescarono questo cataclisma sono ancora gli stessi che danno consigli sulle «compatibilità». Alcuni lo fanno in buona fede. Altri nascondono con le prediche la cattiva coscienza”.
Quell’editoriale, oggi dai più dimenticato, suscitò all’epoca un impatto notevole nel dibattito politico e giornalistico, soprattutto a Torino, tant’è che qualche giorno dopo, l’8 febbraio, il quotidiano “La Stampa” (di proprietà, allora come oggi, della famiglia Agnelli) avvertì l’esigenza di una risposta a Scalfari, affidata a una delle firme di punta del giornale piemontese, lo storico Luigi Firpo.
Il titolo dell’editoriale è persino più forte (Tragedia Trevico-Torino) e anche il suo autore, citando esplicitamente Scalfari, non si esime dal manifestare un apprezzamento convinto per il “filmdocumento” di Ettore Scola (“tutta la lunga sequenza notturna alla stazione di Porta Nuova – commenta Firpo – è un piccolo capolavoro di realismo poetico”) ma l’analisi sull’emigrazione risulta infine assai meno vibrante e incisiva: le responsabilità vanno attribuite esclusivamente ai politici, sostiene Firpo – mentre da subito erano emerse le colpe della Fiat, documentate dalle inchieste di “Vie Nuove” condotte negli anni Sessanta da Diego Novelli – e “l’alto costo umano del «miracolo economico»”, sosteneva Firpo, si era abbattuto in pari misura sia a Torino che al Sud. Anzi, era stata la metropoli piemontese a correre il rischio “di venire travolta dall’immigrazione in massa di seicentomila esuli in cerca di lavoro ad ogni costo”, piuttosto che l’Italia meridionale a essere privata di residenti e di forza-lavoro, e soprattutto della prospettiva di un futuro diverso.
Nel frattempo, tuttavia, quella realtà così triste e problematica documentata tra il ’71 e il ’73 in Trevico-Torino non era rimasta del tutto immutata.
Due anni dopo l’uscita del film Diego Novelli, che ne aveva scritto la sceneggiatura insieme a Scola, era diventato sindaco di Torino: il primo, e più popolare, sindaco di un’amministrazione di sinistra, che trasformò in maniera più democratica e solidale la fisionomia di Torino ed il rapporto fra il centro e le periferie. E contemporaneamente la Fiat, su pressione dei sindacati operai e delle principali forze politiche di sinistra e di centro, aveva aperto un grande stabilimento proprio in Irpinia, a Grottaminarda, a pochi chilometri da Trevico.
Si realizzava così in qualche misura il sogno che in maniera appassionata e rabbiosa, nella convulsa scena finale del film, il giovane Fortunato, emigrato da Trevico a Torino, confidava nella lettera ai suoi familiari rimasti nel Sud: porre fine all’emigrazione verso il Nord industriale, portando invece le fabbriche nelle aree più povere del Mezzogiorno. Un risultato che maturò per la convergenza in senso meridionalista della politica e della migliore cultura italiana. Il declino recente dell’una e dell’altra contribuisce a rendere di nuovo, drammaticamente, attuale lo scenario economico e sociale che Ettore Scola svelò all’Italia con Trevico-Torino.
di Paolo Speranza