Stop Making Sense
La recensione di Stop Making Sense, di Jonathan Demme, a cura di Elisa Baldini.
Realizzato da Jonathan Demme riprendendo quattro diverse serate del tour dei Talking Heads al Pantages Theater di Los Angeles tra il 13 e il 16 dicembre 1983, Stop Making Sense, oltre ad essere uno dei più grandi film concerto mai realizzati ,è, in tutto e per tutto, l’approdo in chiave cinematografica delle riflessioni sulla performance a cui era giunto il leader del gruppo David Byrne in quel periodo.
Prendendo ispirazione dai gesti stilizzati ed innaturali del teatro giapponese e delle danze balinesi, Byrne si era convinto che l’assenza di spontaneità non significa per forza insincerità. “Stabilii che non c’era niente di male nell’indossare costumi e mettere in scena uno spettacolo.” Stop making sense è, quindi, la ripresa di un concerto che si mostra nel suo essere “trasparente”: una macchina spettacolare che prende il via dalla nudità del palco per assemblarsi un pezzo alla volta, partendo dai titoli di testa che scorrono sul pavimento grigio e strizzano l’occhio a Il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick e dalle sneakers bianche di Byrne, che si presenta armato solo di uno stereo portatile e di una chitarra acustica, spiazzando tutti con una versione di Psycho Killer crivellata di riff prodotti da una drum machine suonata dal banco di missaggio.
“L’idea era che la gente avrebbe guardato il vuoto e pensato alle sue possibilità”. E le possibilità non tardano ad arrivare, in un crescendo ordinato ed insieme esaltante, dove la fanno da padrone le luci progettate da Byrne insieme alla light designer Beverly Emmons e i movimenti di danza ripetitivi, stilizzati e vagamente schizoidi di Byrne, mentre la macchina da presa di Demme si concentra con piani lunghi esclusivamente sulla band, mostrandoci un controcampo del pubblico in delirio solo alla fine.
Lo show raggiunge il suo culmine quando Byrne, dopo l’esibizione dei Tom Tom Club (la band parallela di Frantz e Weymouth) torna sul palco per i tre brani conclusivi, Girlfriend Is Better (da cui è estratto il titolo Stop Making Sense),Take Me to the River e Crosseyed and Painless, con un completo grigio dalle dimensioni esagerate ispirato al teatro nō giapponese e frutto dell’interpretazione letterale di quanto gli aveva detto a Tokyo il suo amico stilista Jurgen Lehl: “sul palco tutto deve essere più grande”[1]. L’anonima divisa da impiegato a cui Byrne è così affezionato si ingigantisce in un travestimento per niente carnascialesco, ma che amplifica, anzi, la formalità straniante della sua danza, l’impeccabile concentrazione del suo trasporto. Non c’è niente di più programmaticamente rock and roll di tutto questo.
[1] Le dichiarazioni di Byrne sono tratte dal suo testo Come funziona la musica, Bompiani, Milano, 2013.
di Elisa Baldini