La terza e quarta età della mafia

Anton Giulio Mancino riflette sul cinema crime partendo da The Alto Knights.

Per tornare a coniugare cinema e storia come termini tra i quali far intercorrere non una congiunzione ma l’ausiliare del verbo essere quale migliore occasione di The Alto Knigths, che chiama in causa numerosi altri titoli di film, e non certo per un esercizio filologico. Nel mosaico epocale del crimine inveterato in seno alla storia degli Stati uniti occorre innanzitutto armarsi di aritmetica della coscienza. E ripartire dai veterani che si sono dedicati all’impresa di questo film che in Italia per necessità cognitive elementari in disuso viaggia con il sottotitolo I due volti del crimine.

The Alto Knigths è innanzitutto un investimento memoriale da ottantenni e novantenni che combattono la loro battaglia filmica reiterando consapevolmente il modello di Martin Scorsese, il quale già con De Niro e Pileggi aveva elaborato a futura memoria Quei bravi ragazzi, ovvero Goodfellas, quindi Casinò e infine sempre con De Niro e Steven Zaillian sceneggiatore al posto di Pileggi The Irishman. Poco importa quindi se proprio in The Irishman, anche in quel caso procedendo al computo dell’età anagrafica di Scorsese, De Niro, Harvey Keitel e Joe Pesci, si arrivavano a mettere assieme nel sodalizio culturale e professionale secoli paralleli che il cinema ha intercettato da sempre con profondo senso di responsabilità divulgativa, logico-irrazionale e decostruttiva. Non è un caso che in The Alto Knighs si veda in televisione passare il classico di Raoul Walsh La furia umana con l’irriducibile e furioso James Cagney, che in qualche modo rimanda al De Niro numero uno nei panni di Genovese pronto a dare di matto come Pesci in Quei bravi ragazzi e Casinò; o che al fianco del De Niro numero due interprete bolso di Costello l’attrice Debra Messing sia truccata come Ingrid Bergman; o che addirittura lo stesso De Niro/Genovese somigli in maniera impressionante al Robin Williams, contemperato da Levinson in passato per Good Morning, Vietnam, Toys – Giocattoli e L’uomo dell’anno.

Non esiste soluzione di continuità in The Alto Knights tra un film pregresso e uno attuale, comicità involontaria e processi-spettacolo, se l’attualità è retaggio e ostaggio di un ricordo ridotto a evento mediatico in procinto di svanire dal patrimonio contemporaneo. Né occorre ricordare che con le vicende di mafia e di capi-mafia in forma di biopic Levinson abbia già dato nel solco di Scorsese in Sleepers e Bugsy. Il confronto tra Levinson e Scorsese, al netto delle coincidenze attivate, è fuorviante se si considera che l’autore di The Alto Kinghts, alla testa di un progetto di ultraottuagenari richiamati in servizio per rievocare nuovamente, dopo Joe Valachi – I segreti di Cosa Nostra di Terence Young con il Genovese di Lino Ventura o il più defilato recitato da Charles Cioffi in Lucky Luciano di Francesco Rosi; quindi il meeting dei capimafia dell’intera nazione ad Appalachin e il delitto di Albert Anastasia nella sala da barba che da solo coniuga il volto di Fausto Tozzi del suddetto Joe Valachi, quello di Richard Conte in Mio fratello Anastasia di Steno, nonché di Michael Rispoli in The Irishman.

Non si arriva molto lontano constatando appena le combinazioni riscontrabili a livello di struttura e prospettiva drammaturgica tra Quei bravi ragazzi, Casinò e The Irishman sul fronte scorsesiano, e il The Alto Knights di Barry Levinson, con la complicità duplicata di Robert De Niro, Irwin Winkler, Nicholas Pileggi e Dante Spinotti. Né tantomeno serve fare confronti, quando il terreno è dentro il territorio ortodosso del cinema che fa della storia discorso senza l’avallo della cinefilia nell’adoperare come alveo il genere gangsteristico. Per gli Stati Uniti i film su Cosa Nostra, come i western del resto, purché dotati di spirito “maggiorenne”, hanno avuto come contesto di riferimento la genealogia accanto all’iconologia degli eventi. Di generi cinematografici e di conguaglio continuo tra autori si può parlare purché non vi siano soluzione di continuità o tentazioni omissive dettate dall’ignoranza verso l’ambito storiografico inseparabile. L’Anonima Omicidi gestita dal potente Anastasia ad esempio è già al centro, sotto altre spoglie, de La città è salva, sempre di Walsh, sebbene il film sia stato ufficialmente accreditato a Bretaigne Windust, in un’epoca in cui i risultati delle udienze e dei rapporti della Commissione al Senato di Estes Kefauver venivano pubblicati in volume con il titolo Crime in America e tradotti da Carlo Fruttero per Einaudi nel 1953 come Il gangsterismo in America.

Sommando dunque l’età del regista Levinson (classe 1942), del protagonista sdoppiato in modalità Pirandello in arte De Niro (classe 1943), che andrebbe infatti considerata due volte interpretando i ruoli dei rispettivi e coetanei boss di Cosa Nostra, Frank Costello e Vito Genovese, quindi l’età dello sceneggiatore Pileggi (classe 1933), del produttore Irwin Winkler (classe 1931), nonché del direttore della fotografia Spinotti (classe 1943), si ottiene mezzo millennio (o seicento anni, in caso l’addizione riguardi sei e non cinque soggetti) di vita comunque vissuta tra cinema e privato, immaginario collettivo e retroterra a largo spettro.

Seguire perciò l’inchiesta di Kefauver in The Alto Kinghts, ottant’anni fa lettura saggistica, significa essenzialmente rispolverare un rapporto prioritario tra le fonti e la rappresentazione che Levinson ora decide di istituire ancora, a distanza di sicurezza proprio dal paradigma Scorsese rintracciabile solo negli immediati paraggi. Detto altrimenti, nel suo film non equivalente o di risulta c’è la rinuncia all’inquadratura lunga che riallaccia i piani e il filo della memoria che invece anche in The Irishman connotava l’ottica sconsolata ugualmente di lungo periodo di uno stile di regia dimenticato a sua volta. In The Alto Knights, social club originario e coilpevole, di contro, onde evitare il testa a testa con Scorsese, Levinson propende per il taglio veloce da stripes/strisce, ergo da caricature/maschere umoristiche nell’accezione appunto pirandelliana; e che si perdono e ricompongono come in un collage, composito e scollegato di fatti andati perduti, simile allo specchio irrimediabilmente rigato da frantumi insanguinati.

Questo quadro generale scosso di continuo da inquadrature concepite in chiave di schegge psichiche, colorate o decolorate, documentali o finzionali, destituite all’apparenza di stile proprio si prefigge come obiettivo davanti all’obiettivo della macchina da presa, chiamata in correità, a restituire l’essenziale allo spettatore odierno afflitto da disturbi dell’attenzione: ovvero l’eredità rimossa, disordinata e ingovernabile del delitto o peccato originale degli Stati Uniti violenti d’America, quindi della desinenza italiana dell’immediato dopoguerra con indesiderati e rimpatriati nelle o dalle file di Cosa Nostra. E procede appositamente nei meandri della medesima materia caotica di verità e inganno assemblati, silenzi e dichiarazioni pubbliche, deposizioni e corpi deposti in orizzontale da raffiche di pallottole, poiché una non basta mai, può mancare il bersaglio o per un miracolo paradossale non raggiungere l’esito cimiteriale richiesto.  

Non c’è redenzione né via di scampo nell’America dei grossi investimenti finanziai che gettano le basi della Las Vegas a grosso capitale e investimento mafioso in pieno deserto del Nevada, salvo l’arte di invecchiare bene che il team assortito di The Alto Knights offre come provocatoria chiave di lettura generazionale, sfida percettiva e valore aggiunto di un’operazione intelligente dove aleggia l’estrema dissociazione del carattere e dell’identità. De Niro che incarna anche con l’ausilio falsificante del digitale l’uomo d’affari che non si sporca le mani ma mente e il delinquente che non parla e piuttosto ammazza o fa ammazzare pur di prendersi tutto, rende sostanziale nei prosaici “due volti del crimine” l’impossibilità di distinguere il bene dal male dentro il sistema mafia/America: lo stesso sistema di fondo che ha falciato i due Kennedy, un presidente irriconoscente verso gli amici degli amici (John) e un procuratore generale, equivalente del ministro della giustizia, deciso a perseguire con ogni mezzo il racket (Robert); ed elegge ai giorni nostri presidenti a propria immagine e somiglianza patologica.

E tutto ciò mentre in tanti hanno detto, pensato o scritto, a proposito del veterano Scorsese poco incline a lodare le lunghezze schematiche degli esemplari sempre più ridondanti del Marvel Cinematic Universe, che Killers of the Flower Moon era un film troppo lungo o noioso.


di Anton Giulio Mancino
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