Una gioiosa militanza: il cinema secondo Ingrao

Paolo Speranza delinea il rapporto di Pietro Ingrano con il cinema.

È stata Luciana Castellina, con la consueta arguzia intellettuale, a rimarcare il legame indissolubile (e fecondo) tra politica e cinema nella storia della sinistra italiana: «Il Pci è diverso dagli altri partiti comunisti perché anziché nascere a Mosca è nato a Cinecittà. Mezzo gruppo dirigente viene dal Centro sperimentale di cinematografia: Alicata, Ingrao, Lizzani, oltre che Visconti e De Santis».

Di questo gruppo, paradossalmente, proprio i due protagonisti/competitor dello storico congresso del Pci del ’66, Pietro Ingrao e Mario Alicata, scelsero di dedicarsi a tempo pieno alla politica, nonostante una promettente esperienza da autori, come attesta l’importante contributo di entrambi alla sceneggiatura di Ossessione, il film di Luchino Visconti che nel ’42 segnò uno spartiacque nella storia del cinema italiano, spalancando la strada al Neorealismo, nonché l’incarico affidato dallo stesso Visconti ad Ingrao per il trattamento cinematografico (rimasto incompiuto) di Jeli il pastore, dalla novella dell’idolo letterario dei neorealisti Giovanni Verga.

Per il giovane Ingrao, cresciuto in piccole città di provincia dove il padre esercitava la funzione di segretario comunale, l’approdo a Cinecittà e la frequenza al Centro Sperimentale di Cinematografia – due istituzioni appena nate nella seconda metà degli anni Trenta – rappresentarono la forte tentazione di una “scelta di vita” nel segno del cinema e dell’arte, ben presto spezzata (ma senza rimpianti, confidava) dall’urgenza di un impegno più impellente e concreto, sollecitato dalla tragica vicenda della Guerra di Spagna.

Anche nel nuovo e definitivo percorso di vita, tuttavia, il cinema ha rappresentato per Ingrao un approdo costante, dove poteva esprimersi quella simbiosi di “dissacrazione e alterità” che Mario Tronti individua come le autentiche “armi pacifiche ingraiane”, nell’introduzione al libro Mi sono molto divertito – Scritti sul cinema (1936-2003), edito nel 2006 dal Centro Sperimentale di Cinematografia, a cura di Sergio Toffetti.

«Davvero nel mio caso si può ripetere lo slogan “cinema primo amore”. Lo scoprii quando uscivo dalla fanciullezza», ricorda Ingrao. La sua narrazione di quella scoperta, improvvisa e folgorante, rivela una straordinaria somiglianza con le memorie dei più grandi cineasti e poeti di quella generazione.

Per molti di loro, Cinecittà rappresentò l’ingresso nella realtà industriale della nuova arte del secolo, ma il mondo dei sogni e della fantasia si era rivelato alcuni anni prima, nelle sale affollate e fumose delle città di origine: per Fellini lo storico Fulgor della sua Rimini, dove scoprì il cinema con Maciste all’inferno; per Alfonso Gatto il cinema Italia di Salerno, dove ben presto finì per innamorarsi perdutamente di Greta Garbo come tutti i suoi coetanei (compresi alcuni “insospettabili” come il suo amico e futuro critico e polemista Carlo Muscetta); o le eleganti sale di proiezione napoletane per i brillanti liceali dell’”Umberto I” Napolitano, Rosi, Ghirelli, La Capria, con i quali Ingrao condivise pure l’importante esperienza frondista dei Littoriali e dei CineGuf.

Fu a pochi chilometri da Napoli, all’età di dieci anni, che il ragazzo Ingrao scoprì la magia del grande schermo: «Circa alla metà degli anni Venti fu trasferito a Santa Maria Capua Vetere, una città campana a un passo da Napoli», ricorda nel libro. «Santa Maria era una città vivace, a suo modo allegra, le case con grandi cortili e balconate».

Nell’antica città di Terra di Lavoro, nel cinema sul Corso principale, il bambino cresciuto con le letture di Salgari (come Gatto), i fumetti (amati anche da Fellini e Scola) e i versi dell’Iliade (futuri ispiratori dei western di Sergio Leone) scoprì la potenza emotiva delle immagini in movimento e nuovi miti: Douglas Fairbanks, eroe insuperabile di azione e avventure, e Charlie Chaplin, creatore di una nuova forma di poesia di cui Ingrao rimase ammiratore per sempre, regalandoci recensioni  tra le più intense a film come Tempi moderni, Luci della ribalta e soprattutto Monsieur Verdoux, con il suo straniante apologo finale sulle devastazioni della guerra, e l’impunità dei potenti che la provocano, che in queste ore rivela tutta la sua terribile attualità.

«Insomma, in quella mia agra giovinezza il cinema fu più del piacere del film; fu scoperta delle grandi culture europee e contatto con il vasto mondo», afferma nel colloquio con Ezio Raimondi. Soprattutto del migliore cinema tedesco (Pabst) e francese (Renè Clair), della cultura americana di opposizione, promossa in Italia da Vittorini (la narrativa realista di Hemingway, di James Cain, di Furore) e osteggiata dal regime; e del cinema sovietico di Ėjzenštejn, Pudovkin, Dziga Vertov, di cui fu straordinario divulgatore ed esteta uno dei maestri di Ingrao al Centro Sperimentale, Umberto Barbaro, futuro critico di “Rinascita” e “Vie Nuove”, al quale Ingrao dedicò su “Bianco e Nero” un commosso ricordo.

Dalla preziosa silloge degli scritti cinematografici di Ingrao emergono pagine meno conosciute ma di indubbia rilevanza nella sua biografia intellettuale ed umana: il rapporto quasi filiale con un altro suo maestro al CSC, il tedesco antinazista Rudolf Arnheim; l’amicizia di una vita, espressa anche attraverso un costante rapporto epistolare, con il regista Giuseppe De Santis – riscoperto nell’ultima Mostra di Venezia dal documentario di Steve Della Casa Un’altra Italia era possibile: titolo che accomuna De Santis a politici come Pietro Ingrao – con il quale condivideva la formazione cinematografica (sulla rivista “Cinema”), la militanza comunista e l’origine ciociara; l’ammirazione per i nuovi maestri del teatro (Eduardo) e del cinema (Fellini, soprattutto quello di Amarcord).

Gli stessi scritti di critica, pochi ma brillanti testimoniano una padronanza straordinaria del linguaggio cinematografico e una buona dose di lungimiranza, con qualche eccezione: di fronte alla stroncatura di Rashomon, dopo la “prima” a Venezia(«tetro, falso, pretenzioso drammone giapponese») non pochi spettatori e critici saranno rimasti poco persuasi.

Per Ingrao e gli intellettuali progressisti – ed è questa la lezione più importante – la passione per il cinema andò quindi oltre la dimensione onirica ed il piacere estetico: le battaglie ventennali in difesa del Neorealismo (memorabili i suoi interventi – ricchi di pathos civile e sferzante ironia – in difesa di Miracolo a Milano) e contro la censura rappresentarono il terreno più concreto di applicazione delle teorie gramsciane sulla cultura popolare e di lotta politica contro l’oscurantismo clerico-fascista negli anni Cinquanta, quando persino una favola poetica come il film di De Sica e Zavattini sui clochard meneghini poteva apparire sovversiva, o Umberto D. era accusato da Andreotti di screditare l’Italia agli occhi del mondo, e nel delirio campanilistico-feudale di Achille Lauro persino L’oro di Napoli metteva in cattiva luce la città.

In quell’Italia così diversa e lontana – nonostante la vis retroattiva della destra oggi al governo – da quella attuale, anche l’idea di cinema era decisamente più complessa rispetto alle colte ma fredde passioni dei cinephiles d’oggigiorno, che al Neorealismo e al grande cinema italiano del dopoguerra (all’epoca il più ammirato e innovativo del mondo) guardano con sufficienza e distacco. Che cosa rappresentasse allora il cinema lo spiega bene lo stesso Ingrao, nell’intervista a Toffetti: «La passione per il cinema, per noi, significava da un lato riflettere sulle potenzialità espressive di un’arte nuova, che portava nuove problematiche nel mondo letterario e culturale con cui ci confrontavamo». Ma più di tutto, nel cuore della battaglia delle idee, il cinema si affermò come «uno strumento per parlare con grandi masse, che poteva avere un’enorme influenza sulla società, e dunque per noi era il linguaggio ideale dove confluivano le riflessioni teoriche e la volontà di rinnovamento sociale. E poi – conclude Ingrao – ci divertivamo tanto».

PIETRO INGRAO

di Paolo Speranza
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