Stranger Eyes
La recensione di Stranger Eyes, di Yeo Siew Hua, a cura di Gianlorenzo Franzì.
Parte un po’ svantaggiato Yeo Siew Hua, perché la trama del suo Stranger Eyes riecheggia un po’ Niente da Nascondere (Cachè) di Michael Haneke, un po’ Strade Perdute (Lost Highways) di David Lynch, uno un capolavoro, l’altro un vero e proprio totem del cinema. Ma man mano che la storia si svolge, la storia prende derive tutte sue e il regista mostra bene che se ispirazione c’è stata, era solo come punto di partenza: perché la storia della piccola Bo, figlia di Junyang (Wu Chien-ho) e Peiying (Anicca Panna), scomparsa nel nulla in un parco giochi di Singapore durante un momento di distrazione del padre, si smarca subito dai sospetti mettendo in chiaro che il regista non vuole indagare sul senso misterioso e inafferrabile delle immagini come simulacro di verità, bensì fare un punto su una società nella quale la sorveglianza, lo sguardo estroflesso, è quasi un mezzo relazione più che una misura preventiva. Non per niente, il Lo Wu (Lee Kang-sheng) sorveglia la giovane Peiyng non per controllarla ma per amarla.
Ed è proprio questo lo snodo fondamentale di Stranger Eyes: guardare ed essere guardati come estrema, problematica, tossica maniera attuale per costruire relazioni basate sull’immagine. Nonostante venga citato apertamente Dostoevskij (“anche se una persona non è un criminale, lo diventerà”), il film guarda da lontano il contorno morale del tema orwelliano del controllo sull’individuo, preferendo riflettere sull’ambivalenza dell’azione dello sguardo, passivo e attivo,
Siew-Hua è bravo a dirottare continuamente l’attenzione dello spettatore verso altri segnali, altre tracce tematiche che rimandano in un gioco di specchi ad altre interpretazioni: e allora cita Hitchcock e L’Occhio che Uccide di Michael Powell, fa esplodere ed implodere l’investigazione puntando poi il riflettore su un padre e uomo assente e traditore, suggerendo infinite possibilità che però esistono solo fuori dallo schermo, dove noi non possiamo guardare. E nel fare tutto questo, sceglie una struttura sintattica personale per il suo Stranger Eyes, destrutturando la scansione cronologica degli eventi, anzi depotenziandola, e facendo muovere la macchina da presa da osservatore ad osservato che diventa a sua volta parte attiva, e così via.
Tutto questo è però un movimento trasversale, uno slittamento che poi riconduce tutto alla tesi centrale, domandandosi -senza però dare risposte- se l’atto del guardare, in quanto ontologicamente personale, non rifletta la propria interiorità e insieme la percezione che abbiamo di noi stessi.
di Gianlorenzo Franzì