Il tempo che ci vuole

La recensione di Il tempo che ci vuole, di Francesca Comencini, designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.

Il tempo che ci vuole, di Francesca Comencini, distribuito da 01 Distribution, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:

«Infanzia, adolescenza e prime esperienze di una futura regista viste attraverso il rapporto con un padre tenero e intransigente, Luigi Comencini. Truffaut consigliava di non bruciare i propri ricordi d’infanzia nei primi film. E allora “Il tempo che ci vuole” è anche quello servito a Francesca Comencini per maturare questa toccante autobiografia double face: il padre e la figlia, il pubblico e il privato, la droga e il cinema. Tutto il cinema: di oggi, di ieri, di domani».

La recensione
di Guido Reverdito

Un padre e una figlia. La storia del loro rapporto nel passaggio del tempo raccontata dal punto di vista di quella che era una bambina e che adesso è una donna di oltre sessant’anni. Dall’infanzia all’età adulta passando attraverso gli inevitabili scossoni di un’adolescenza tribolata uguale a tante. Una storia cioè come ce ne potrebbero essere a milioni. Se non fosse che chi la racconta ripercorrendone tutte le fasi e i profondi alti e bassi è Francesca Comencini e il padre in questione è Luigi Comencini, figura fin troppo ingombrante per visibilità pubblica e ruolo all’interno del panorama del cinema di casa nostra, ma soprattutto perché idolatrato come modello da chi – come lei e altri membri della famiglia – ha trascorso buona parte della propria vita nel suo scomodo cono d’ombra.

Francesca Comencini aveva già in parte affrontato il proprio rapporto con questa monumentale figura di genitore ne Le parole di mio padre del 2001: ma se in quel caso il ritratto era delineato in maniera volutamente sfuggente usando due capitoli de La coscienza di Zeno di Italo Svevo per restituire una figura genitoriale distante e autoritaria, venti e rotti anni dopo quell’esperienza, con Le parole di mio padre la regista e sceneggiatrice con ormai quattro decenni di carriera alle spalle ha deciso di immergersi negli abissi a tratti dolorosi dei propri ricordi per raccontare senza falsi pudori e infingimenti di comodo la storia di un tribolato rapporto padre/figlia.

Per farlo, come dice il titolo più che evocativo del film, le ci è voluto il tempo necessario per digerire e storicizzare tutti i capitoli di una vita vissuta all’ombra di un padre che, pur avendo dedicato l’intera esistenza alla propria professione diventando per lei un inevitabile e forse inarrivabile modello di riferimento, non le ha mai negato tutte quelle attenzioni che una figlia si aspetterebbe da una figura paterna. Soprattutto in momenti molto difficili (come il penoso calvario dell’uso e abuso di droghe che la Comencini non ha paura di ripercorrere con ferocia introspettiva) di un’esistenza sempre in bilico tra l’urgenza di aspettative presunte e delusioni profonde come ferite.

Da una parte è quindi impossibile non parlare di autobiografismo: non fosse altro che accanto al privato più intimo e anche doloroso che per la prima volta la regista lascia emergere in superficie dopo averci fatto i conti, davanti agli occhi dello spettatore scorrono immagini che ripercorrono in maniera inequivoca vicende vissute sui molteplici set del padre e dettagli che possono essere il prodotto soltanto della memoria di chi – come lei – ne è stata testimone diretta. Ma allo stesso modo l’ambizione del film è anche quella di elevare la materia dal particolare all’universale, trasformando reali accadimenti ripercorsi a ritroso nell’album delle memorie personali (ivi inclusi sprazzi di tragedie nostrane quali Piazza Fontana, il delitto Moro, le Brigate Rosse mescolati a reminiscenze private) nel paradigma di un rapporto genitori/figli adattabile a qualunque latitudine e generazione.

Presentato fuori concorso a Venezia e con pezzi da 90 del cinema italiano a far parte del cast tecnico (la sorella Paola ai costumi, Francesca Calvelli al montaggio, Luca Bigazzi alla direzione della fotografia e Marco Bellocchio tra i co-produttori) a ribadirne una volta di più la centralità all’interno dell’intera operazione, Il tempo che ci vuole ha uno dei suoi punti di forza nella scelta del cast: nel ruolo non agevole del padre Luigi giganteggia un monumentale Fabrizio Gifuni, attore immenso che si vorrebbe vedere più spesso sullo schermo. Pur non assomigliando affatto al Comencini “reale”, Gifuni lascia senza parole nella capacità che ha di evocare il grande regista nella camminata, nel modo di muovere le mani così come nelle espressioni del volto e nel piglio autoritario e gentile confermato da moltissimi attori che hanno avuto occasione di lavorare con lui nel corso degli anni.

Non ostante la presenza attorialmente ingombrante (tanto quanto il padre Luigi lo fu per anni per la figlia Francesca), accanto a Gifuni non ha paura del confronto Romana Maggiora Vergano, la ventiseienne attrice che il grande pubblico ha imparato ad apprezzare per il ruolo della figlia di Paola Cortellesi nel campione di incassi dello scorso anno C’è ancora domani. Qui di nuovo impegnata a disegnare il personaggio di una figlia, una Francesca che supera quasi indenne le trappole di un’adolescenza tribolata per arrivare ad accompagnare da adulta responsabile l’adorato padre nel suo ultimo viaggio verso il cielo.


di Guido Reverdito
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