Cinema e cineoperatori di guerra nelle riflessioni dei teorici del Novecento
Il prof. Massimiliano Coviello (Link Campus University di Roma) si sofferma sul rapporto tra cinema e cineoperatori di guerra nei testi di teorici come Procida, Canudo, Bazin, Comolli e Virilio.
In concomitanza delle due guerre mondiali, i primi teorici del cinema avevano esaltato le capacità attestative e documentali del nuovo mezzo di riproduzione. Oggi, in una fase in cui il cinema si innesta all’interno di nuove infrastrutture mediali, ne influenza alcune dinamiche di funzionamento e ne ingloba a sua volta degli elementi, emerge con più chiarezza l’idea che le possibilità testimoniali risiedano nella capacità del film di attuare una rielaborazione di quanto è stato registrato dall’obiettivo, influenzando così sia i processi di negoziazione culturale del senso sia quelli sociali dell’esperienza storica.
Agli albori della teoria del cinema diversi critici e teorici hanno lodato le possibilità di documentazione della nascente settima arte, nella convinzione che quest’ultima fosse anche uno strumento utile per costruire una testimonianza storica. Rispetto alla fonte scritta, il cinema si presentava più fedele e più immediato proprio perché dotato della capacità tecnica di catturare e riprodurre le immagini delle tragedie in corso.
Mentre si consuma il primo conflitto mondiale, il critico Saverio Procida non solo celebra «la forza documentativa della pellicola» (“Per la storia d’una follia universale e per la più universale esecrazione d’una follia della Storia”, in L’Arte muta, n. 2, 1916, p. 14), ma prospetta il suo valore di prova per il futuro e ne esalta l’efficacia documentale. Procida fa inoltre un elogio epico alla figura dell’operatore che, con la sua cinepresa, è il vero poeta di guerra, l’unico in grado di cogliere «il fatto che si vede, che vi aggredisce con la sua flagranza, che v’inchioda al quadro e vi strappa la pietà e il raccapriccio» (p. 15).
Il freddo meccanismo che fa girare la pellicola, lasciando che questa si faccia impressionare dal marasma delle offensive, coadiuvato dall’obiettivo puntato verso la ferocia della battaglia, è l’unico testimone imparziale dello svolgersi della guerra, più dei rapporti dei generali e dei racconti dei soldati. Meglio della filosofia, della morale o della scienza, le immagini catturate e riprodotte attraverso il cinematografo permetteranno di erigere una madia di fatti, dalla quale l’umanità dovrà trarne una lezione.
Se l’auspicio di Procida non è stato raccolto, quello che resta della sua riflessione è l’idea che l’operatore, per il tramite della cinepresa, possa documentare e raccontare la guerra: sia nel suo compiersi e cristallizzarsi in quanto fatto storico, sia nel suo essere un evento che scatena atti crudeli e intense emozioni.
Per i teorici del primo Novecento il cinema è dunque lo strumento più adatto per testimoniare la guerra. A confermarlo è un altro critico italiano, autore del Manifesto delle Sette Arti, che scrive in Francia tra gli anni Dieci e gli anni Venti. Si tratta di Ricciotto Canudo che, in una disamina dei generi cinematografici, interpretati come esempi rivelativi dei principi estetici del cinema, si scaglia contro il film storico in costume, per lodare invece il documentario e in particolare quello di guerra, capace di svincolarsi dai canoni e dagli stili già consolidati nelle forme artistiche precedenti e di rivelare l’unicità e la forza della nascente arte.
Scrive Canudo: «Gli unici film storici, nel senso puro e suggestivo della parola, sono quelli che al cinema si chiamano attualità, e tra essi i più tragici sono i documentari di guerra» (L’officina delle immagini, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1966, p. 195). Anche per Canudo il connubio tra la macchina e l’operatore è il più efficace degli strumenti storici, l’unico in grado di mostrare e raccontare la guerra, facendo della guerra stessa un’epica visiva: «Spesso l’operatore si è levato in piedi dinnanzi alla battaglia come un eroico testimone, più freddo dello storico, perché se la paura poteva scuotere i suoi nervi, nulla poteva commuovere il gelido obiettivo puntato sulla mischia» (p. 199). La cinematografia sarebbe potuta diventare lo schermo della Grande Guerra, il fondamento della verità storica per gli studiosi e un testamento per i posteri, utile per non ripetere simili orrori.
Se, per usare il termine caro a Procida, il cinematografo restituisce i fatti, documentando la vita e cogliendola nella sua flagrante e fragorosa drammaticità – come pretende Canudo, rivendicando l’affermazione di un’estetica del cinema –, esso non potrà esimersi dalla “messa in forma” del materiale, ovvero dalla scelta di un modo di presentare, montare e dunque ricostruire la feroce guerra, e infine dal rivelarne aspetti e punti di vista fino ad allora ignoti non solo al grande pubblico, ma persino agli strateghi militari.
Riguardando le immagini della guerra, riesumando le pellicole girate al fronte, si troveranno tracce e documenti frutto delle potenzialità visive dell’obiettivo “indossato” dal cineoperatore. In un articolo anonimo apparso sulla rivista Minerva nel 1917 e intitolato “La fotografia nella guerra odierna”, si legge: «Gli storici si serviranno delle fotografie per seguire gli eventi, e in esse, prese dall’aereo o dalla trincea durante l’attacco, troveranno una guida sicura circa lo svolgimento delle varie offensive. […] La storia stessa della guerra mondiale, anziché letta, verrà forse soltanto esaminata nelle riproduzioni fotografiche» (citato da Alessandro Faccioli in “Rulli di guerra nel cinema muto”, da Gli italiani in guerra: Conflitti, identità memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, a cura di M. Isnenghi e D. Ceschin, vol. 3, tomo 1, Utet, Torino, p. 875).
Alla fine degli anni Quaranta André Bazin ritorna sul carattere documentale del reportage di guerra per integrarlo nella sua teoria del realismo cinematografico. Il fatto che le immagini siano girate nel teatro delle operazioni è già di per sé una prova della loro autenticità. Quest’ultima alimenta sia la componente drammatica del film sia le esigenze psicologiche dello spettatore. Infine, l’autenticità del girato è una garanzia per la storiografia, che può usare queste immagini come fonti. Scrive il fondatore dei Cahiers du cinéma: «Grazie al cinema, il mondo realizza un’astuta economia sul preventivo delle sue guerre poiché queste vengono utilizzate a due fini, la Storia e il cinema, come quei produttori poco coscienziosi che girano un secondo film nelle scenografie troppo dispendiose del primo» (Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano, 2008, p. 21).
Bazin sottolinea la capacità posseduta dal cinema di rendere persino i semplici spettatori compartecipi di quello che accade. E, anche in guerra, questa condivisione risponde al bisogno di presenza radicato nella psicologia dell’uomo moderno. Se è necessario documentare e far partecipare il pubblico, allora si dovrà garantire la massima copertura mediatica agli eventi.
Bazin è consapevole della dipendenza dell’attualità, come della storia, dalla riproduzione cinematografica. Tanto più che lo spettatore è stretto nella morsa di un sodalizio tra gli apparati di distruzione e quelli di comunicazione. Le operazioni di guerra sono costruite secondo criteri prettamente cinematografici, tali da trasformare le zone del conflitto in un set in cui sarà difficile discernere l’efficacia della strategia militare dall’orchestrazione spettacolare dello scenario.
Nella figura dell’operatore si sintetizzano diverse funzioni: quella di osservatore, di testimone ma anche di protagonista in prima linea dell’evento bellico. Scrive Bazin: «È così che le nazioni in guerra hanno previsto l’equipaggiamento cinematografico del loro esercito allo stesso titolo dell’equipaggiamento propriamente militare» (p. 22). L’assimilazione di una sceneggiatura “implicita” nella percezione degli eventi da parte del soggetto moderno è tale per cui qualcosa accade non solo perché viene ripreso, ma anche perché tende sempre di più a coincidere con un film ben girato: il mondo, denudato dagli obiettivi, non può che trasmutare la sua immagine per compiacere i riflettori.
Le immagini girate in guerra – tra presa diretta e processi di archiviazione – sono, nelle riflessioni dei teorici sin qui riproposte, un elemento di esplicitazione della funzione documentale del cinema. L’apparato di ripresa, catturando il movimento, è in grado di riproporre allo spettatore il succedersi dei fatti così come sono avvenuti. Ed è proprio la presenza di un apparato tecnico a essere garante di trasparenza e oggettività. Se da un lato la macchina da presa possiede un’estrema sensibilità nei confronti di ciò che accade al fronte e un’altrettanto fervida capacità di coinvolgere lo spettatore, sono proprio i limiti tecnici e soprattutto ideologici a corrompere, spesso mistificando, ciò che sembra essere la grande frontiera del cinema: il documentario di guerra.
Nella Prima Guerra Mondiale gli operatori-combattenti possedevano obiettivi e capacità di ripresa molto più limitati rispetto alla complessità visiva e sonora dello spettacolo bellico: lo spazio della trincea mal si adeguava all’appello della ripresa diretta e le immagini offerte agli spettatori spesso non erano altro che dettagli catturati dalle retrovie. Lo stesso Bazin si mostra cauto nell’individuare nel documentario di guerra una logica della pura trasparenza e al contrario, attraverso l’analisi della serie di film di propaganda Why We Fight (Frank Capra e Anatole Litvak, 1942-1945), composta da materiale di repertorio girato durante Seconda Guerra Mondiale, sottolinea sia il funzionamento discorsivo sia la funzione ideologica del montaggio e del commento sonoro nel documentario di guerra.
Nei decenni successivi diversi storici e studiosi del cinema rileveranno l’influenza degli apparati politici sulla produzione di documentari e cinegiornali di guerra, denunciando l’utilizzo a scopi propagandistici dell’efficacia persuasiva del cinema sulle masse. Tra questi vi è Jean-Louis Comolli che, riprendendo la celebre opposizione baziniana tra il palcoscenico teatrale, capace di confinare al suo interno la rappresentazione a partire dalla sua forza centripeta, e lo schermo cinematografico, la cui illusione si fonda sull’assenza di quinte e quindi possiede una capacità centrifuga, afferma una radicale trasformazione nelle funzioni belliche dell’apparato cinematografico.
Quest’ultimo viene descritto dal teorico e cineasta francese nei termini di un passaggio dalla logica del mascherino a un sistema di inquadramento. Infatti, il sistema di inquadramento esalta le capacità del cinema di valorizzare, selezionare, normare e infine diffondere ciò che bisogna vedere, lasciando ben poco da intravedere: «Ormai niente schermo senza indice puntato che indichi non solo il senso della lettura, ma la lettura ha già avuto luogo, che una “guida” è già passata di lì» (Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta, Donzelli, Roma, 2006, p. 102).
Se il cinema costruisce un’immagine della guerra, che con lo sviluppo tecnologico dei mezzi di ripresa e di riproduzione del suono e delle immagini si perfeziona sempre di più, i fautori della guerra non esiteranno a sfruttare il mezzo, la sua evoluzione e la sua popolarità per ottenere una macchina propagandistica efficace e soprattutto uno tra gli strumenti più utili per condurre la battaglia.
Il cinema non è soltanto un dispositivo utile a mostrare e raccontare la guerra, a sostenere lo sforzo bellico sul fronte interno – attraverso le campagne di propaganda – ma le sue caratteristiche lo rendono a pieno titolo un’arma, al pari di quelle utilizzate per far fuoco sugli obiettivi nemici. La percezione, mediata dall’apparato e dalle modalità di messa in forma cinematografica, è un elemento centrale della strategia militare. Potenza di fuoco e potenza scopica si sovrappongono. «Inquadrare è distruggere», scrive il filosofo Paul Virilio nelle pagine iniziali del suo studio sui rapporti tra la tecnologia cinefotografica e la storia dei conflitti tra la fine dell’Ottocento e il Novecento (Guerra e cinema: Logistica della percezione, Lindau, Torino, 1996, p. 12).
Se, almeno a partire da Bazin, si era accresciuta la consapevolezza che la riproduzione della guerra per il tramite dell’obiettivo implicasse inevitabilmente la sua costruzione, con Virilio si afferma l’idea che il cinema sia uno dei principi regolatori del fenomeno bellico, corresponsabile delle sue trasformazioni. Dalle immagini di guerra alla guerra delle immagini: parallelamente al racconto dei cinegiornali e delle altre forme di propaganda visiva, si potenzia il processo di captazione tecnica e psicologica degli effetti di sorpresa del cinema da parte degli autori delle guerre, anche di quelle a venire.
Nella guerra delle immagini professata da Virilio, alla logistica militare si affianca la logistica della percezione: la regia di comando si evolve in una regia cinematografica, dove alla visione del materiale girato seguono le operazioni di montaggio e in cui la percezione del conflitto è mediata da schermi, mappe e diagrammi – si pensi alla war room del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick (1964) – grazie ai quali è possibile regolare la propria potenza di attacco sui regimi visivi.
Previsione e dissimulazione sono le due componenti strategiche che, nel tentativo di equilibrare la potenza di fuoco con la gittata dei campi percettivi, hanno decretato il fallimento della visione in prima persona della guerra di trincea, laddove il tentativo era quello di produrre e diffondere delle immagini basandosi quasi esclusivamente sul punto di vista del combattente e dunque del cineoperatore.
D’altronde, i passi avanti svolti nell’allargamento del campo percettivo hanno portato all’utilizzo di contromisure sempre più sofisticate per mimetizzarsi agli occhi del nemico predatore (strategie di invisibilità, di intimidazione, camouflage). I punti di vista dai quali guardare, programmare e attuare la guerra si moltiplicano e con essi si trasformano i modelli di cattura e rappresentazione delle immagini, incrementandone la capacità di sorvegliare e attaccare porzioni di spazio e di tempo sempre più ampie.
di Massimiliano Coviello