Memorie di casa nostra

Memorie dal passato, ma anche del presente, per un Paese -questa Italia depressa, impaurita, spesso incarognita, del 2010- che da tempo sembra aver smarrito proprio la memoria, e con essa la sua più antica e profonda identità -antropologicamente multiculturale- oltre che ogni progetto di sviluppo e di civile convivenza. Alla Mostra di Venezia, l’opera-simbolo di questo faticoso ma necessario recupero della memoria storica è stata certamente, sin dal suo titolo suggestivo, ripreso dal romanzo di Anna Banti, Noi credevamo di Mario Martone (concorso). Un progetto coltivato per tanti anni, nel quale il regista napoletano fonde, grazie alle sue diverse esperienze, linguaggi e generi, trovando lungo il percorso il grande cinema, al tempo stesso epico ed intimista, grazie anche al generoso coro di attori e attrici che incarnano il meglio della scena (soprattutto teatrale) italiana di questi decenni. Una cavalcata lungo oltre 30 anni della Storia ottocentesca che ha cambiato l’Italia, per farci capire, didatticamente ma soprattutto emotivamente, meglio che nei libri di testo distrattamente studiati, quanto il Risorgimento e l’Unità -oggi financo volgarmente disprezzata da partiti politici, ma anche nel senso comune- siano in fondo rimasti delle grandi “incompiute”, per via di frazionismi, ambiguità, tradimenti, violenze terroristiche, lotte fratricide, e trasformismi finali, e come tutto questo abbia influenzato, la storia del Novecento, e oltre. Per averne conferma, basta poi selezionare e montare con intelligenza cinegiornali e documentari del Luce, dagli anni ’10 agli ’80, come ha fatto Gianfranco Pannone (ma che Storia, “Controcampo italiano”).
E se Garibaldi fu fermato a Teano –e il Regno delle Due Sicilie sopravvisse di fatto a lungo, tra i noti gattopardismi meridionali, tutt’oggi vivi e vegeti, stando almeno alle cronache politiche- cosa potevano aspettarsi le genti che stavano più a Sud, oltre alle tragiche disillusioni di Bronte e dell’Aspromonte? Di ritrovarsi un mondo ancora “fuori dalla Storia” – e “senza Cristo” come lo avrebbe descritto Carlo Levi sul finire del fascismo (peraltro “eterno”, secondo Pasolini). Infatti, è ancora il mondo dei Malavoglia – lotta quotidiana per la sopravvivenza, ma con le mafie e le banche a controllare tutto, non solo il mercato del pesce- anche se lontano dai superbi estetismi viscontiani, purtroppo vanamente evocati, quello che descrive, attualizzandolo, Pasquale Scimeca (in “Orizzonti”), operazione cinematografica forse non proprio riuscita ma comunque sincera e provocatoria. Siamo qui nella Sicilia in fondo alla Sicilia, dove i giovani riescono a trasformare in rap i “cunti” e i proverbi degli anziani, ma dove pure, proprio vicino al mare di Portopalo che ha risucchiato interi barconi di clandestini, gli immigrati magrebini sono sempre i più poveri tra i poveri, tollerati e misconosciuti. Come del resto gli africani di Rosarno, Calabria, dove molti contadini di ieri sono oggi piccoli padroni e dove le mafie sono da tempo padrone del territorio e del riciclaggio e smistamento della manodopera in nero, sfruttata e umiliata, e poi presa a fucilate, se finisce per incazzarsi e spaccare tutto. Al di là delle strumentalizzazioni politiche, questa umanità trattata in maniera non umana, riesce almeno a parlare e dire la sua ne Il sangue verde di Andrea Segre (“Giornate degli Autori”).
La memoria del passato e del presente, tra questioni familiari e racconto sociale in presa diretta, si mescolano, in un dialogo “di formazione” attraverso le montagne tra un padre e il suo ragazzino di otto anni, nel Cielo senza terra di Giovanni Maderna e Sara Pozzoli (“Giornate degli Autori”). Ma spesso la famiglia non c’è, o se c’è è distratta, o fa muro, protettivo, di clan, basta che nel quartiere non arrivi la polizia. Nella periferia di Corviale (Roma), claustrofobica e autoreferenziale come i manicomi di Celestini, rivivono, anche nella cifra stilistica omaggiata (ma con maturità notevole per un esordio nel lungometraggio) dai giovani autori Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, le borgate pasoliniane, solo aggiornate al gomorriano degrado contemporaneo dei nuovi ragazzi di vita, e dei loro padri, madri e fratelli maggiori (Et in terra pax, “Giornate degli autori”). A Napoli invece, Antonio Capuano, in piena coerenza stilistica e tematica con la sua ventennale filmografia, racconta con L’amore buio (“Giornate degli autori”). il conflitto tra mondi incomunicabili, la borghesia e i figli del sottoproletariato. Uno stupro di gruppo è il drammatico punto di “incontro” dei due giovani protagonisti, Ciro e Irene, rappresentanti di questi opposti sistemi culturali e valoriali, i quali, l’uno dal carcere, l’altra trovando la forza di uscire dalla propria casa confortevole a scoprire il mondo esterno e superare il trauma, intraprendono il difficile cammino verso la possibilità di un linguaggio comune, di una riparazione, di un perdono, di uno sguardo reciproco, anche se pur sempre distante, che Capuano condensa emotivamente nel bellissimo montaggio alternato del finale.
Un’Italia rimasta sempre sottotraccia bigotta, e che non voleva vedere le bellissime immagini dei “travestiti” di Via del Campo, immortalati da Lisetta Carmi negli anni ’60 e mostrate, tra le altre, dal bel documentario di Daniele Segre (Lisetta Carmi, un’anima in cammino, Giornate degli Autori) e diventata oggi, oltre che ipocrita cinica e svogliata, anche rispetto al proprio e altrui lavoro, ma desiderosa di auto da fè e sacre rappresentazioni. La descrive, nella cifra di una finta commedia dal retrogusto assai amarognolo (ma con un finale che apre a un possibile riscatto), Carlo Mazzacurati ne La Passione (concorso). La lunga “notte italiana”, di cui il regista padovano aveva colto anche profeticamente i prodromi (dall’osservatorio privilegiato del Nord-Est), dura ancora, e si è fatta nel tempo persino più buia. Però, nuovamente, “addà passà a nuttata”…Noi ci crediamo ancora…
di Redazione