Tra le macerie della Storia (e delle storie) del mondo
Come ci ha ben spiegato Amartya Sen in un suo celebre saggio, le visioni che mirano a imporre una “identità unica” a popoli e gruppi sociali negando così la complessità, ma soprattutto la ricchezza, delle tante identità -individuali e collettive- di cui ciascun individuo è portatore, ha ricondotto il mondo contemporaneo a violenze e atrocità senza fine; violenze e atrocità sempre più spesso perpetrate e giustificate nel nome di valori e credi religiosi, dai micro-conflitti etnici alla dimensione planetaria del cosidetto “scontro tra civiltà”, settario e totalizzante al pari proprio del malinteso concetto di “civiltà” su cui si fonda. Ma (per nostra fortuna) il cinema di oggi – e dunque molti film visti alla 67. Mostra di Venezia (dal concorso principale alle sezione collaterali)- continua a riflettere ed esplorare questi temi, scavando tra le memorie (e le macerie) della Storia e delle storie private, per salvarle dall’oblio, ed esplorando i confini identitari, per lo più ambigui o invisibili. Scavare memorie è però, come si sa, un lavoro duro, che richiede energia ma ancor più lucidità e precisione chirurgica, specie per compiere, con efficacia, delle vere e proprie “autopsie della Storia” (come titolava “Il Manifesto” del 7 settembre).
Fa proprio questo, magistralmente, attraverso precisissime geometrie visive ed emotive, il cileno Pablo Larrein, che con Post Mortem (in concorso, ma prevedibilmente ignorato dal palmares), disegna, in un drammatico crescendo, un doppio e parallelo intreccio di follia personale e socio-politica: da un lato, l’amore impossibile -giacchè fondato sulla paura e sulla solitudine- del signor Mario -un attempato uomo qualunque, che lavora in un obitorio compilando referti- per la ballerina Nancy, sua vicina di casa; dall’altro, la tragica fine della democrazia cilena massacrata dal golpe militare del ’73 (il giovane regista sarebbe nato tre anni dopo…), la sua montagna di cadaveri accatastati (come le suppellettili dell’agghiacciante finale), tra cui il cadavere di Allende, che vediamo sezionato nella morgue. Alla fine, sarà solo silenzio, dei morti e dei vivi (eccetto il grido di denuncia di una dottoressa, condannata a “sparire” da lì a poco): taceranno tutti, per calcolo o paura, compresi i medici e i funzionari statali come Mario, uno dei tanti, dell’infinita schiera di “conformisti” su cui si reggono, da sempre, le dittature.
Anche Alex de la Iglesia ambienta un tragico triangolo amoroso al tempo e sullo sfondo della guerra civile spagnola. Ma la sua Balada triste de trompeta, a dispetto dell’inizio travolgente e di alcune sequenze che sbeffeggiano nel segno del grottesco il regime franchista insediatosi nel frattempo, si avvita presto, a nostro avviso, nell’iperbole narrativa in salsa splatter (altrettanto prevedibilmente ricompensata dalla giuria presieduta da Tarantino). Nel programma assai ricco di buoni titoli (al pari della selezione della SIC) delle “Giornate degli Autori”, abbiamo ritrovato il talento di Danis Tanovic, che con Cirkus Columbia (tratto dall’omonimo romanzo di Ivica Dikic) chiude una ideale trilogia sulla tragedia delle guerre balcaniche dello scorso decennio (dal celebre “No man’s land”, 2001, e “Triage”, 2009, ambientati, rispettivamente durante e dopo il conflitto). Qui siamo invece nella Bosnia-Herzegovina del 1991, nell’immediata vigilia dello sconquasso, di cui le vicende delineano inequivocabilmente i prodromi, tra voglie di rivincita e “vendetta” dopo il crollo del comunismo (sia pure alla yugoslava), utopie nazionalistiche, barriere religiose. Grazie anche a un cast di tutto rispetto, su cui spicca la consueta verve attoriale di Miki Manojlovic (Divko, tornato in patria dopo venti anni di esilio fuori dal paese a reclamare la sua casa di famiglia, gettando così in strada la ex moglie e il figlio, e ostentare i suoi nuovi status symbol, compresa la giovane e bella compagna incontrata in Germania), anche questo film fonde con sapienza narrativa e travolgente senso tragicomico i due piani, quello privato e quello sociale e politico, forse solo indulgendo a un finale troppo scopertamente nostalgico.
Ancora la memoria di guerre fratricide segnate dall’odio religioso, pur se in tutt’altro scacchiere geo-politico, quello medio-orientale e in particolare libanese, è evocata dall’intenso Incendies, una produzione franco-canadese diretta da Denis Villeneuve, abilissimo a orchestrare, con un fluidissimo montaggio alternato, i diversi tempi e personaggi della storia. Più che altrove è qui esplicito il tema delle ricerca e del riconoscimento (pur dolorosi) dell’identità (anzi delle complesse identità) come unico antidoto alla violenza e strada obbligata di un possibile riscatto. La storia di Nawal, donna prigioniera prima della sua cultura, che le vieta l’amore e la rende esule in patria, vittima poi della guerra, dove sfugge alla morte, la vede, la pratica a sua volta, per finire torturata e stuprata per anni in isolamento, resistendo ai carnefici con un atto supremo di volontà che più che eroismo è forse proprio quell’amore negato, sublimato infine nel perdono del suo carnefice e in un testamento postumo che spinge i figli –cresciuti in Francia- a scoprire quel mondo lontano e quel passato di dolore indicibile, ma che pure il regista riesce a descrivere senza alcun cedimento, mescolando il realismo più crudo alla poesia. Una speranza affidata dunque solo ai più giovani, gli unici capaci di superare e ibridare le culture, evocata pure dal più “giovane” dei cineasti viventi, Manoel De Oliveira, nel suo breve ma illuminante viaggio attraverso un dipinto e nella Storia del colonialismo e dei suoi fantasmi; fantasmi (quelli degli indios) esposti alla luce dalle fotografie del missionario esploratore Alberto Maria De Agostini, opportunamente ricordato dal bel documentario di Sandri e Gaudino.
di Redazione