Incontro con Enrica Fico Antonioni
Pubblichiamo un estratto della lunga e articolata intervista, intititolata “Le aurore di Michelangelo”, realizzata da Piero Spila e Bruno Torri a Enrica Fico Antonioni. L’intervista è presente nel numero 48 (ott./dic./07) di CineCritica
Sui film di Antonioni è stato scritto moltissimo. Si conosce meno il suo metodo di lavoro, sul set e nella fase precedente, ad esempio nella fase della preparazione, durante la stesura della sceneggiatura.
Le sceneggiature dei suoi film erano sempre precedute da lunghe ricerche, che potevano durare anche anni. Lui voleva sapere tutto dell’ambiente in cui si svolgeva il racconto. Ricordo che per Tecnicamente dolce, film che poi non è stato realizzato, Michelangelo approfondì per anni la mania delle armi che aveva il protagonista, andando spesso al Poligono di tiro per conoscere le persone che lo frequentavano, le loro abitudini, i loro tic. Si mise anche a studiare le armi, le loro caratteristiche, la meccanica, il modo di usarle. Poi, finita la fase dei sopralluoghi, raccontava le idee, frutto delle sue ricerche, agli sceneggiatori con cui collaborava, Tonino Guerra o Mark Peploe o Gerard Bach; a quel punto seguiva tra di loro una serie di rimpalli, finché si sviluppava una linea narrativa, la struttura del film. Un’altra cosa che so è che Michelangelo non scriveva, tranne quando lavorava con Tonino Guerra, il quale si limitava a buttare giù degli appunti: poi ne parlavano, giocavano, litigavano, magari stavano insieme per giorni, invitavano amici, mangiavano, e viaggiavano molto. Di quelle fasi preparatorie ricordo soprattutto dei grandi viaggi. Per L’aquilone, un altro film che non è stato fatto, io e Michelangelo abbiamo fatto un lungo viaggio in Russia, insieme a Tonino e Lora, la sua donna. Abbiamo visitato per mesi tutte le Repubbliche allora sovietiche per trovare i luoghi dove girare il film. Michelangelo era instancabile, perché quello era il suo metodo di lavoro: aveva sempre bisogno di collocare le idee in luoghi fisici precisi, e quando alla fine si metteva a scrivere il film lo “vedeva” perfettamente, immaginava le inquadrature, i movimenti di macchina. Per Professione reporter mi ha parlato dell’ultima scena, il famoso piano-sequenza, assai prima che ci fosse la sceneggiatura. Anzi, posso dire che ha fatto il film soprattutto per quella scena, che aveva chiarissima in mente e che mi ha spiegato più volte. Che poi era una cosa molto complicata, perché non esisteva proprio la possibilità tecnica di girare la scena così come la pensava Michelangelo, non c’era ancora la steadycam e dunque non si poteva uscire con la macchina da presa dalla finestra della stanza della locanda e andare fuori, nella piazza, con lo stesso movimento. Né, all’epoca, Michelangelo aveva ancora trovato il luogo dove girare Professione reporter, perché prima pensava di fare Tecnicamente dolce per cui aveva già fatto i sopralluoghi in Sardegna e nella giungla. Poi del film non se ne fece nulla e allora una parte della sceneggiatura è finita in Professione reporter. Michelangelo era affascinato dallo script preparato da Mark People, ma, ripeto, la cosa che più lo interessava era l’idea della morte rappresentata con quel piano-sequenza, con quel movimento di macchina.
Qual era per Antonioni il germe, lo spunto originario, di un film: un’idea, un’immagine, una lettura, una sensazione visiva?
Poteva essere qualsiasi cosa, anche piccola, casuale. L’idea de La ciurma, altro suo film non fatto, partì da un breve articolo che Michelangelo lesse su un quotidiano, in cui si parlava della storia di quest’uomo su una barca. Si può anche ricordare la famosa frase di Michelangelo quando disse in un’intervista che l’idea de Il grido gli venne guardando un muro. Per Deserto rosso, invece, l’ispirazione deve essergli venuta da Monica Vitti, che in effetti aveva delle paure, delle angosce molto particolari. Anch’io ho ispirato Michelangelo, e infatti mi sono poi ritrovata, senza saperlo, in alcune donne protagoniste dei suoi film, ad esempio in Identificazione di una donna e inAl di là delle nuvole.
Da Professione reporter ai suoi ultimi film, forse anche a causa della malattia, l’impressione è che nel modo di girare di Antonioni ci sia stata una progressiva essenzializzazione, che il suo stile si sia ancora più prosciugato. Insomma, da un cinema narrativo, strutturato, si è passati ad un cinema più astratto. È così?
Penso che questo derivi dalla maturità dell’uomo e dell’artista. Michelangelo è morto a 94 anni, quindi ha vissuto una parabola artistica molto lunga, in cui ha avuto tutto il tempo e la possibilità di approfondire la sua visione del cinema, la sua intuizione artistica, fino a portarle alla loro essenza. E lo ha fatto fino alla morte. Anche la fine della sua vita per me è stata, in un certo senso, una specie di capolavoro, perché lui ha diretto la sua morte. Michelangelo, infatti, è morto quando ha deciso di farlo: ad un certo punto non vedeva più e quindi non ne ha più voluto sapere di continuare, ha smesso di mangiare, si è lasciato andare. Ma è difficile morire per una persona sana come, malgrado tutto, era lui. E’ vissuto in questo stato per diversi mesi, mangiava pochissimo e si smaterializzava lentamente nel corpo, ma rimanendo sempre assolutamente lucido. Alla fine è morto in maniera consapevole e serena, osservandosi dall’esterno, mettendosi quasi nella posizione del testimone, posizione che assomigliava anche a quella rintracciabile nel suo ultimo cinema. Ha ragione Vittorio Giacci quando dice che la macchina da presa di Michelangelo, di film in film, andava sempre più in alto.
Negli ultimi film, in effetti, il dolly era predominante.
E’ vero. Una volta, in Sicilia, durante le riprese di Noto. Mandorli. Vulcano. Stromboli. Carnevale, mi ero messa in testa di portare Michelangelo a vedere i mandorli fioriti, purtroppo però la stagione era passata e non era più possibile. Una delusione, anche perché il mandorlo in fiore è uno dei simboli più belli della Sicilia. Però un giorno mi dicono che in montagna ci sono i mandorli fioriti, allora andiamo a vedere ed effettivamente li troviamo, ma molto piccoli, appena piantati. Eppure Michelangelo sembrava contento: “Bene, bene”, mi dice. “Ma come, bene? – dico io – ci vogliono degli alberi secolari, questi sono troppo piccoli”. “No, vanno bene”. Si è fatto portare uno di quei cestelli di ferro che usano gli operai dell’Enel per riparare le linee dell’alta tensione, sopra ci ha piazzato la macchina da presa e l’ha fatta salire in alto, più in alto che si poteva. Da quella posizione, ha girato tre panoramiche, ogni volta alzando un po’ di più la macchina da presa, e il risultato è una sequenza di una poesia incredibile, con queste file di alberi piccoli e fioriti che segnano un paesaggio tipicamente siciliano. Michelangelo negli ultimi tempi era così, cercava di mettersi sempre di più nella posizione del testimone.
A proposito dello sguardo da testimone, c’è da ricordare che la carriera di Antonioni comincia come documentarista, e finisce, magari per necessità, ancora come documentarista. E in ogni caso, anche nel suo cinema narrativo la vena documentaristica, in qualche misura, è sempre avvertibile. Nei suoi film c’è la capacità di fissare la realtà nei suoi dati immediati e nello stesso tempo di coglierne l’essenza: è un cinema fenomenologico e insieme ontologico. Come considerava Antonioni questa dimensione documentaristica del suo cinema?
Guardate che Michelangelo faceva sì dei documentari, ma avrebbe fatto soltanto dei film a soggetto, amava soprattutto raccontare storie e personaggi. Quindi realizzava i documentari come se fossero dei lungometraggi, facendo sopralluoghi e lunghe preparazioni.
Antonioni è sempre stato considerato, giustamente, un regista laico. Nello stesso tempo aveva una concezione dell’arte quasi sacrale, il suo cinema era sempre molto rigoroso, sempre proteso alla ricerca di una verità, di un valore assoluto. Negli ultimi film si intravede, però, una dimensione spirituale più accentuata, ci sono delle aperture, degli interessi diversi. Secondo te, c’è stato questo passaggio?
Sicuramente. Michelangelo aveva una grande curiosità verso la dimensione spirituale. Doveva fare anche un film, dedicato a questo tema, che poi è confluito in uno degli episodi di Al di là delle nuvole. Per quel film, che si sarebbe dovuto girare in Umbria, aveva fatto lunghe ricerche, aveva letto Sant’Agostino, Santa Teresa d’Avila, aveva fatto con me molti viaggi in India, dove gli ho fatto conoscere alcuni maestri induisti. Lui era molto interessato. Ma io penso che tutti i film di Michelangelo siano, alla fine, una ricerca spirituale, anche se laica. Al suo funerale, a Ferrara, il sacerdote che ha celebrato la cerimonia, Don Massimo, un prete regista e un vero intellettuale, ha incominciato la sua omelia ricordando che una volta Antonioni, in un’intervista, alla domanda se credeva in Dio, rispose: “Qualche volta, di notte”. Ecco, in quella risposta c’è molto di Michelangelo, che deve aver pensato molto alla dimensione del divino, deve averla in qualche modo sempre cercata, pur essendo assolutamente ateo.
di Piero Spila