Critici e Critica
Tempi duri per la critica cinematografica. Oltre a dover continuare a fare i conti con problemi ormai annosi (spazi ridotti sui quotidiani, sostanziale assenza di una autentica attività critica sulle reti televisive, trionfo sociale della volgarità e dell’incultura…), di recente è stata nuovamente accusata, con argomenti tanto triti quanto sbagliati, di non sapersi porre in sintonia con il pubblico, specialmente con quello giovanile che corre in massa ad applaudire, oltre i cinepanettoni natalizi, i film sugli amori adolescenziali dei vari Moccia, Muccino e altri, quei film cioè che sono stati sempre, o quasi sempre, accolti da valutazioni più o meno negative e in qualche caso da stroncature, come si dice, feroci. Sotto il profilo strettamente culturale, la questione di per sé non è merita una particolare attenzione, ma un paio di osservazioni, anche se necessariamente banali, è opportuno farle, proprio perché possono servire a delimitare con minore approssimazione il campo e le funzioni della critica stessa. La prima: ha senso parlare della critica cinematografica in generale (in astratto) solo quando i discorsi sono di ordine teorico (cioè quando si parla di metodi interpretativi, di scelte ermeneutiche, di criteri assiologici, di ruoli sociali, ecc.), non quando ci si riferisce al vero e proprio esercizio critico: in questo caso non c’è più la critica cinematografica, c’è soltanto l’operato dei singoli critici cinematografici, ognuno dei quali è responsabile di quello che scrive o dice, ed è soltanto con lui che si può consentire o dissentire, senza tirare in ballo l’intera categoria. E infatti ogni recensione è diversa da tutte le altre, anche quando risultano nettamente prevalenti i giudizi positivi o quelli negativi.
Al massimo, una eventuale unanimità di giudizi, positivi o negativi che siano, può essere riscontrata e usata come un oggettivo dato di fatto concernente l’accoglienza, appunto in sede critica, di un determinato film. La seconda osservazione riguarda la confusione, che sarebbe facile da evitare ma che invece si persiste ad assecondare, tra gli aspetti quantitativi e gli aspetti qualitativi che riguardano il cinema e i film: il successo al botteghino è un mero elemento statistico (quantitativo) che concerne l’economia cinematografica e, se proprio si vuole, la sociologia del cinema, ma che non ha nessun rapporto con l’arte e la cultura cinematografiche. Un film di grande successo commerciale può essere bellissimo (ad es., La dolce vita) o bruttissimo (inutile quanto facile citare titoli), così come può verificarsi l’esatto contrario, con fallimenti al box office che possono riguardare sia i capolavori che i prodotti più scadenti. Il confondere l’estetica con la merceologia è, di norma, soltanto un segno di ignoranza, ma a volte è anche un modo surrettizio, e molto miope, per svalutare e cercare di limitare ulteriormente gli interventi critici, temendo che possano in qualche misura influire sulle scelte degli spettatori. Di fronte a questi atteggiamenti, il critico cinematografico può solo rispondere cercando di fare al meglio il proprio mestiere, quindi rifiutando qualsiasi condizionamento, ovvero non assoggettandosi alle mode e seguendo unicamente i propri convincimenti culturali, il proprio “sentimento della forma” (Pasolini), la propria idea di cinema, il proprio orientamento ideologico, il proprio gusto.
di Bruno Torri