Il cinema di Paolo e Vittorio Taviani: tra utopia e disincanto

Il film di Paolo e Vittorio Taviani “Cesare deve morire” è stato scelto per rappresentare l’Italia al Premio Oscar.
A tal proposito pubblichiamo l’articolo che il condirettore di CineCritica Piero Spila ha scritto per il n.66/67 della rivista del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
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Nell’intervista concessa a “Cinecritica” Paolo e Vittorio Taviani ad un certo punto confessano di tenere molto ad una scena di Kaos, quella in cui i ragazzi protagonisti dell’ultimo episodio sono costretti a fare una sosta con la barca, perché il vento si è improvvisamente fermato, e scendono su un’isola dalla sabbia bianchissima. Sono tristi perché stanno andando a raggiungere il padre in esilio, sono spaventati perché stanno lasciando le cose che più amano, eppure nel momento in cui tutto sembra perduto ecco che si abbandonano alla forza e alla bellezza della natura, e in quell’incanto ritrovano il coraggio di andare avanti. E’ un momento di cinema che ritorna spesso nei film dei Taviani, quando un soprassalto di fiducia, un inatteso istinto vitale nasce proprio da un profondo dolore. Ed è uno dei tanti segni d’autore che contraddistinguono una parabola narrativa ed espressiva straordinariamente coerente. Non è un caso che i Taviani una volta abbiano paragonato il loro procedere di film in film al modo di vogare di quei pescatori che restano in piedi sulla barca, dando un colpo di remi da una parte e poi uno dall’altra. Se il pescatore è bravo, l’imbarcazione procede diritta. E il cinema dei Taviani non è mai stato ondivago, pur con le discontinuità inevitabili nella scelta dei temi e negli esiti espressivi. In un paese come l’Italia, la cui cinematografia ha vissuto le stagioni più alte nel segno del realismo e di una rappresentazione molto diretta della realtà (anche se in chiave satirica, grottesca o semplicemente nostalgica), i Taviani fanno costante riferimento a una dimensione metaforica e alla poesia, mai però per allontanarsi dalla realtà stessa, viceversa per rappresentarla sotto aspetti nuovi, più complessi, spesso sorprendenti. Cinema di testa e di cuore, il loro, ma soprattutto cinema alto per la materia affrontata e la sapienza linguistica messa in campo. Dal film d’esordio, Un uomo da bruciare (che si ispirava a un fatto autentico: l’uccisione da parte della mafia del sindacalista Salvatore Carnevale), al loro film più recente, Cesare deve morire (una straordinaria messinscena di Shakespeare ad opera di una compagnia di attori detenuti), il cinema dei Taviani punta sempre sui problemi più incalzanti degli uomini; è vero, parla di sogno e di realtà, di utopia e disincanto, ma lo scatto della fantasia si rapporta sempre con la misura del quotidiano.
E’ soprattutto a partire dagli anni Settanta, dai film “storici” (San Michele aveva un gallo, 1971, e Allonsanfàn, 1974) ai film “contemporanei”, più rivolti alla dimensione del privato (Padre padrone, 1977, Il prato, 1979, Fiorile, 1993), che il cinema dei Taviani cambia modalità drammaturgiche ed espressive, passando dalla struttura del racconto corale, di volta in volta polifonico o a episodi o a tableaux narrativi, ad una rappresentazione più diretta e monodica delle ragioni individuali, ad un progressivo recupero degli spazi della memoria e della soggettività. Tutto questo, naturalmente, a fronte del disorientamento offerto dal presente, del venire meno di importanti punti di riferimento (la crisi delle ideologie). Un passaggio drammatico in cui, curiosamente, sono i bambini ad avere spesso la funzione del controcanto, aprendo varchi inattesi (e imbarazzanti) nella difficoltà e nell’opacità del racconto e della rappresentazione diretta, mettendo meglio a fuoco, magari in una sola inquadratura o in una chiusura di sequenza, il giudizio e il sentimento. Sono loro, i bambini, spesso a interrompere la fuga nell’utopia o il delirio di onnipotenza o, come, in Tu ridi, a misurare in maniera quasi insostenibile la ferocia del mafioso che, indifferente all’orrore che sta consumando, si esercita per la sua gara di danza.
In San Michele aveva un gallo è il ricordo di Giulio bambino, rinchiuso al buio per punizione, a sorreggere Giulio adulto nelle circostanze più decisive della sua vita, a spingerlo ad agire nel momento della paura e del dubbio, a salvarlo dalla follia nei dieci anni trascorsi nella cella di isolamento.
In Allonsanfàn, nella notte prima del saluto, è Massimiliano, il figlio di sei anni delirante per la febbre, a riconoscere nel padre il tradimento e l’estraneità.
In Padre padrone, nella scena d’apertura in cui il padre strappa Gavino dalla scuola elementare, da una parte c’è il silenzio impotente della maestra, dall’altra ci sono solo i ragazzi ad opporre, con una serie di primissimi piani e di monologhi interiori, il loro aleatorio e infantile privilegio.
Fino all’elegante tratteggio affabulatorio di La notte di San Lorenzo (1981), con la madre-bambina che ricorda e ricostruisce in forma di ninnananna un passato che è già diventato mito e con la bambina che, chiudendo e riaprendo gli occhi nel campo di grano, trasforma la carneficina tra fascisti e partigiani in una scenografica battaglia dell’Iliade.
E’ negli anni Settanta che muoiono molte illusioni. Improvvisamente la realtà non è più misurabile con i valori dell’ideologia o sulla spinta delle speranze e delle ambizioni soggettive; la realtà è più complessa, ambigua, contraddittoria, e soprattutto non si cambia a comando. I Taviani, con i loro film, sono tra gli autori italiani che registrano più lucidamente questa nuova situazione, passando da un “cinema di risposte”, classico e più collegato alla lezione del neorealismo (Un uomo da bruciare, 1962, o I fuorilegge del matrimonio, 1963), ad un cinema più geometrico, freddo e drammaturgicamente più controllato nel tradurre in un dispositivo estetico i requisiti ideologici e politici del momento, e infine arrivando ad un cinema ancora più indiretto e problematico, che trasforma addirittura in un punto di forza il venire meno della “bussola ideologica”, un cinema che accetta di fare i conti da pari a pari con lo stato di incertezza e di esitazione, con la sconfitta.
Dalla verità presunta all’inverosimile credibile: una situazione difficile, in cui è più comodo restare bambini. Ed ecco che i protagonisti dei film dei Taviani, quando non vogliono accettare quello che hanno di fronte, si difendono chiudendo gli occhi, sicuri che una volta riaperti tutto sarà tornato diverso e migliore. «Adesso chiudo gli occhi e conto fino a dieci, se non succede nulla allora darò l’allarme», dice Fulvio, il giacobino protagonista di Allonsanfàn, mentre i suoi compagni ignari stanno per cadere nel tranello teso dalla polizia. Ma la realtà si sviluppa ormai solo con le sue regole. In Allonsanfàn una mano familiare chiuderà (ancora una volta) gli occhi di Fulvio distogliendolo dal suo proposito. Molto più amara, addirittura tragica, l’esperienza del bambino rapito dalla mafia in Tu ridi, quando costretto a guardare in un foro aperto nella parete del camion che sta trasportandolo via vede sua madre camminare ignara per la strada e il suo grido gli si spezza in gola.
Dopo i fuochi dell’ideologia e dell’ottimismo, dopo il furore e l’impazienza, è ormai il tempo in cui i «ricordi diventano più forti delle speranze» o dove, come ancora in Tu ridi, «si può essere lieti solo nei sogni». Paolo e Vittorio Taviani rappresentano tutto questo con un linguaggio cinematografico ricco di invenzioni e stratificazioni espressive (musica, teatro, letteratura, poesia), ma servendosi di una drammaturgia volutamente semplificata al massimo, che recupera dall’apologo e dalla favola la leggerezza e la ferocia di volta in volta necessari. L’utopia politica recuperata dalla contemporaneità (il ’68, la contestazione giovanile) è messa in scena con la forma della dialettica e della contraddizione (Sotto il segno dello scorpione), oppure lascia il campo al gusto autoreferenziale dell’azzardo e dell’esibizionismo (Giulio Manieri in San Michele aveva un gallo) e poi alla voglia irresistibile di rifare i conti con se stessi e con il proprio passato (Fulvio in Allonsanfàn, Massimo in Fiorile, ecc.). E’ nella scelta e nella capacità di stare “dentro” questo decisivo passaggio esistenziale e politico, in cui meglio si misura l’insufficienza della politica e dell’ideologia, che il cinema dei Taviani, nei suoi momenti più alti, riesce a coniugare comportamenti umani e analisi politica, razionalità e sentimento.
In termini linguistici, c’è stata un’evoluzione evidente nel cinema dei Taviani, passando da un’impostazione registica caratterizzata da grandi insiemi e campi totali, come accade nei primi film, in cui l’uomo non è visto quasi mai come individuo ma come parte di una comunità in divenire, ad un modo di girare più serrato e chiuso sui protagonisti, con l’insistenza quasi ossessiva dei primi piani dedicati all’infelice protagonista di Fiorile o al baritono afono o al mafioso alienato di Tu ridi. Certo con gli anni il loro sguardo e il loro racconto si sono fatti via via più cupi e pessimisti, come dimostra, ad esempio, un film come La masseria delle allodole (2007), in cui i Taviani recuperano un episodio dimenticato della storia del Novecento (l’eccidio degli armeni ad opera dei Giovani turchi) ma per svolgere un discorso universale, per alludere ancora una volta ai problemi del nostro tempo. Perché, ci ricordano, siamo sempre lì, esattamente in quel punto in cui gli interessi nazionali ed economici si mascherano con gli alibi di turno (la superiorità della razza o lo scontro di religione, fino alla guerra preventiva contro inesistenti armi di distruzione di massa) e allora l’odio, il pregiudizio, lo stigma e la ferocia prendono il sopravvento.
I Taviani con i loro film hanno trattato più volte l’oscuramento della ragione e l’orrore della mattanza, ma con La masseria delle allodole (opera ingiustamente sottovalutata) lo fanno raccontando una storia più tetra del solito, perché senza scampo. Mentre in La notte di San Lorenzo il momento più drammatico era comunque rischiarato dal sentimento di una possibile solidarietà tra gli uomini, dalla presenza dell’amore come forza vitale e positiva, qui l’amore sembra essere diventato perfino un aggravante, perché rende gli esseri umani più esposti e vulnerabili, perché spinge a tradire (la giovane protagonista rivela al suo amante il piano di fuga) e addirittura a uccidere (sarà l’amante a decapitare la donna amata per evitarle la tortura). L’unico valore in campo resta come sempre il denaro, come molla scatenante della repressione e come moneta di scambio, infine come mezzo di corruzione e di possibile salvezza. Il denaro, o meglio, l’oro, come maledizione e benedizione dell’uomo, anche al centro di un altro film lucidamente pessimista dei Taviani come Fiorile.
La verità è che quasi trent’anni dopo La notte di San Lorenzo (1982), con La masseria delle allodole i Taviani raccontano una storia senza salvatori né eroi, e, cosa ancora più grave, denunciano come non ci sia più nemmeno la memoria di quanto è accaduto, cancellata dalla storia per amoralità e convenienza, perché mantenerla viva potrebbe ostacolare ciò che sta accadendo in tanti posti del mondo in cui si continua a uccidere e morire dietro i soliti falsi fantasmi della razza e della religione.
Sia che si parli di utopia o di rivoluzione fallita, sia che si affrontino episodi veri della storia italiana o straniera, sia che si faccia ricorso a fantasie e memorie personali o alle pagine della letteratura (Tolstoi per Il sole anche di notte, Goethe per Le affinità elettive, Pirandello per Kaos e Tu ridi, Antonia Arslan per La masseria delle allodole), nel cinema dei Taviani il piano estetico ed espressivo coincide sempre con un discorso indirettamente (e intimamente) politico, nel senso più alto del termine. L’utopia è fallita ma è dall’utopia, dai suoi valori e dai suoi entusiasmi, che comunque si deve ripartire; la risposta non può più essere rinviata al futuro ma ricercata nell’esperienza e nelle ragioni del passato. La consapevolezza, certo, è che una stagione fortunata è forse trascorsa invano o è andata sprecata per sempre (come allude il bellissimo finale di La notte di San Lorenzo, con il cortile battuto dalla pioggia e dal sole, e con la prima separazione tra chi corre via a festeggiare gli “americani” e chi resta indietro già presago della sconfitta). Si apriva, a partire da quel momento, una stagione lunga e infelice, non ancora conclusa, illuminata dagli «anni di diamante» (la definizione è dei Taviani) contro quelli che sarebbero stati, e sono, gli «anni di piombo».
di Piero Spila