Reality
Luciano ha una pescheria a Napoli, dove vive con la moglie e i figli in un palazzo cadente e decrepito abitato in gran parte dai suoi chiassosi parenti. Tra le piccole truffe organizzate insieme alla moglie (la vendita di improbabili robottini casalinghi), il lavoro e i figli, la sua vita scorre tranquilla. Fino a quando, come in una favola, non viene “tentato” dal mito del denaro e del successo: quasi per caso, i bambini lo convincono a fare un provino per “Il Grande Fratello” che diventerà, di lì a poco, il primo passo di una caduta precipitosa in un abisso di follia e ossessioni. Dopo il primo provino l’uomo verrà infatti richiamato a Roma a Cinecittà (come non pensare a Bellissima?) per una seconda selezione, dove si presenterà, emozionatissimo, con tanto di famiglia al seguito.
Tutte le sue aspettative di lì a poco si riveleranno però illusorie e il programma avrà inizio senza di lui. A questo punto Luciano, incapace di accettare la situazione, cadrà preda di un vero e proprio delirio paranoide, fino al punto di credersi spiato da uomini appositamente inviati a valutare la sua condotta morale, per decidere se accettarlo o meno nel tanto ambito programma televisivo. Attorno a lui, la moglie disperata e i parenti e gli amici sempre più sconcertati tenteranno invano di farlo tornare alla realtà.
Con Reality, vincitore del Gran Premio della Giuria a Cannes, Matteo Garrone opera un’apparente inversione di tendenza rispetto al precedente Gomorra, optando per il registro più leggero e arioso della commedia. Apparente perché relativa più alla forma che al contenuto: se Gomorra era un mosaico preciso e lucido, un’indagine rigorosa e asciutta di un mondo spietato e aberrante, anche Reality ribadisce, a suo modo, l’urgenza di un’analisi su alcune macroscopiche storture del presente (sociali e morali ancora prima che politiche). L’ironia che impregna il racconto è in fondo molto amara poiché nasce sempre da una constatazione, inevitabile, delle brutture e delle meschinità umane rispetto alle quali, suggerisce il film, non c’è rimedio né soluzione. Certo, la crudezza che caratterizza alcuni passaggi di Gomorra lascia qui il posto a qualcosa di diverso (disinganno, pena, inquietudine?) ma l’assunto finale non può essere conciliatorio né positivo. Ciò che Garrone mette sotto accusa è un intero sistema massmediatico e sociopolitico, che ha gradualmente e impercettibilmente privato tutta una classe sociale (se di classi è ancora il caso di parlare) non solo del suo buonsenso ma anche e soprattutto della sua dignità. In questo quadro si inscrive la “parabola” di Luciano, preda inerme – e insieme prodotto – di una società cinica e malata che prima lo blandisce e poi lo mette da parte. L’uomo arriva infatti a vendere perfino la sua pescheria rapito dal miraggio di un successo economico che mai arriverà, rischiando di perdere la stima e l’affetto della famiglia a causa dei suoi atteggiamenti sempre più assurdi e insani.
Garrone non infierisce cinicamente sui suoi personaggi, ma neppure si esime da un’osservazione talmente attenta da farsi a volte quasi impietosa. Il suo è un realismo così esasperato – enfatizzato dalle riprese nervose e ravvicinate e dall’uso efficace ed espressivo del dialetto – che, rasentando il grottesco, sfocia in una sorta di iperrealismo. Ogni cosa, in questo mondo kitsch e volgare, squallido e caotico, balza agli occhi dello spettatore quasi ferendoli. A cominciare dall’eloquente incipit del film, in cui viene descritto un matrimonio faraonico con gli che sposi arrivano su una dorata carrozza settecentesca trainata dagli immancabili cavalli bianchi, e dove l’ospite d’onore è Enzo, famosissimo ex-concorrente de “Il Grande Fratello”, adorato da una folla in visibilio.
Ed è appunto questo incipit, accompagnato da una colonna sonora dal sapore fiabesco, che ci introduce nella dimensione propria dei personaggi, segnata da una certa naivitè completamente priva di grazia però, e di cui essi – acconciati in modi strampalati, fellinianamente “teatrali” – non sono affatto consapevoli. E’ proprio l’incapacità dell’umanità descritta nel film di vedersi per ciò che è a generare nello spettatore un senso di disagio e turbamento. La grande naturalezza degli interpreti non fa che enfatizzare questa sensazione: abilissimo Aniello Arena, attore teatrale e detenuto tuttora in carcere, insieme al variegato, bizzarro “coro” dei familiari, tutti veramente perfetti nei loro ruoli.
Garrone eredita in parte lo sguardo tagliente di Germi nel mettere a fuoco certe realtà umane e sociali, ma il suo Luciano richiama anche, per certi versi, gli sgangherati antieroi monicelliani. Neppure il disincanto del Visconti del (già citato) Bellissima è estraneo al film, tuttavia – e questo appare significativo – se la Magnani conclude la sua disavventura con un pianto disperato che rivela una consapevolezza acquisita, Luciano si abbandona infine, al contrario, a una lunga, vacua e insensata risata. E in questo atto resta davvero difficile leggere un segno, anche minimo, di una presa di coscienza della propria condizione. E’ un presente, questo della “società dell’apparire” e della televisione imperante sopra ogni cosa, in cui l’occhio oggettivo e imparziale di Garrone non vede, insomma, alcuna speranza.
Trama
Luciano vive a Napoli con la moglie e i figli, dove gestisce una pescheria. Un giorno si lascia convincere dai bambini a fare un provino per partecipare alle selezioni de “Il Grande Fratello”. Da quel momento perde la testa dietro a un sogno ingenuo e impossibile. Quando poi il programma ha inizio senza di lui, la sua ossessione si trasforma in uno stato di totale paranoia.
di Arianna Pagliara