Il concetto di “classico”

Anche a Cannes, come succede in molti contesti festivalieri (si veda il Lido di Venezia) lo spazio dedicato al cinema del passato è appannaggio di titoli di vario tipo raccolti nella definizione di “classico”. Un modo per evitare le asperità della Storia, e per evitare il lavoro sulle retrospettive.

Il concetto di "classico"

Quale cinefilo non vorrebbe vivere in uno spazio alieno in cui potersi imbattere ogni giorno in film come Los olvidados, Shining, Miracolo a Milano, Toni, La prima notte di quiete, Easy Rider? Da qualche anno nei principali contesti festivalieri internazionali, a partire ovviamente da Cannes e Venezia, questo delirio onirico è stato reso realtà dalla creazione destinate a ospitare i classici, come vengono chiamati. Copie restaurate – per lo più e quasi sempre in digitale – di film del passato, dagli albori del cinema agli anni Novanta, tutti ammassati nelle stesse sale, come se ogni titolo fosse interscambiabile, un blocco unico che pone come distanza rispetto alla restante parte della programmazione del festival solo il Tempo. Sono film storicizzati e dunque, per accezione comune, importanti.

Certo, ogni cinefilo degno di questo nome ambisce a poter passare una giornata della sua vita accompagnato nel buio della sala solo da giganti della Settima Arte. Ma quale pensiero culturale risiede effettivamente dietro una scelta di questo tipo da parte delle istituzioni festivaliere? E che valore acquisiscono questi titoli nell’immaginario collettivo? Quest’anno Cannes ha aperto i battenti della sezione Cannes Classics spalancando di fronte agli occhi degli accreditati le immagini di Hakujaden, vale a dire La leggenda del serpente bianco di Taiji Yabushita. Un titolo oscuro ai più, probabilmente, e tra i più meritevoli di una riscoperta, per di più sul grande schermo. La leggenda del serpente bianco è infatti il primo lungometraggio d’animazione a colori prodotto in Giappone, in quel luogo che diventerà una delle patrie d’elezione dell’animazione stessa. Yabushita non gira un capolavoro, ma è indubbio che il suo film rappresenti un punto di svolta storico che non può essere né sottostimato né passato sotto silenzio. Vista la scarsa preparazione di chi però è stato spedito sul palco della Salle Buñuel per presentare il film – non si può presentare un film d’animazione nipponico e ignorare chi sia stato Osamu Tezuka, come invece è apparso ai presenti in sala – il rischio è che agli spettatori non già edotti sulla materia non sia arrivato nulla. Potranno aver apprezzato il film, ma non sapranno collocarlo all’interno di un percorso storico, estetico, produttivo. Resterà lì, inerte, insieme agli altri film con cui condivide lo spazio nella sezione.

La verità è che il cinema, come ogni arte, rischia di essere svilito se non si ha l’accortezza di contestualizzarlo, di trovare una cornice adeguata a mostrarne evoluzioni e involuzioni, detour e rivoluzioni di vario tipo. Mostrare i titoli che hanno ottenuto nel corso dell’anno un restauro in digitale – tra l’altro affossando una volta di più la pellicola, materia destinata a svanire dall’abitudine di chi guarda, con tutto quel che ciò comporta anche sotto il profilo strettamente estetico, vista l’enorme differenza nella resa sul grande schermo tra 16 e 35 millimetri e il digitale – assolve chi lavora alla selezione da qualsiasi responsabilità reale, oltre a confondere le acque per molti appassionati, spinti in sala dall’idea di vedere classici del cinema, affidandosi a un termine che non ha alcun riscontro reale, non ha valore al di fuori del contesto festivaliero. Perché cos’è un classico? Quando si può ambire a ottenere una simile gratificazione, e a seguito di quale pensiero?

La verità è che i festival dovrebbero smarcarsi da questo mercimonio del passato – dietro il restauro di un film c’è una scelta di occasione politica e di politica economica – per tornare a ciò che facevano un tempo, vale a dire l’allestimento di corpose retrospettive che ragionino su un regista, su un periodo storico, sulla produzione di una o più nazioni, e via discorrendo. Nel lavoro di costruzione di una retrospettiva (che per esempio porta avanti con encomiabile sforzo il Festival di Locarno) si è costretti a ragionare sulle motivazioni che spinsero alla produzione di questo o di quell’altro film, alle modifiche estetiche, alle prese di posizione politiche e sociali. Una retrospettiva non è una vetrina per i “bellissimi”, ma un viaggio a volte anche contraddittorio o doloroso attraverso il tempo, e il cinema che quel tempo ha attraversato. Spesso modificandosi. Recandosi in sala a vedere un film di una retrospettiva non si entra in una bolla del Tempo in cui il 1930 de L’âge d’or e il 1952 di Moulin Rouge rischiano di sovrapporsi e confondersi; si vive il film nel tempo in cui venne prodotto, se ne assapora la soave vecchiaia, lo si inquadra in una prospettiva che rifugga una volta per tutte dalla corsa spasmodica al capolavoro, male incurabile della critica contemporanea.


di Raffaele Meale
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