Lavorare stanca, non lavorare uccide. Il Giordano Bruno di Montaldo

Tra marzo e aprile 2020 sarebbero stati ricordati a Bari il decano del Gruppo Puglia Vito Attolini e Alfonso Marrese, fondatore della Mediateca Regionale Pugliese nella quale si sarebbe svolta la rassegna Sotto il segno dei film. Si sarebbe proiettato, tra gli altri, il Giordano Bruno di Giuliano Montaldo, sceneggiato dal regista assieme ad Anchisi e De Caro. Un approfondimento.

Se volessimo dare una definizione spaventosamente anacronistica ad un film potremmo dire è “attuale”. Ma non sarebbe anacronistica la definizione in sé, quanto la nostra stessa realtà: trovare attuale il Giordano Bruno di Giuliano Montaldo potrebbe significare ammettere che dal 1973 ad oggi non sia cambiato nulla o quasi sia dal punto di vista formale che contenutistico nel cinema italiano (e non è accaduto certo questo, il linguaggio si è evoluto e così l’uso dei media, fino ad un abuso costante e indefinibile). Se mai, dunque, dire attuale significa ammettere che non è cambiato nulla dai tempi di Bruno: che ne è della ricerca? Montaldo gira il suo film durante gli Anni di Piombo, nel 1973, seguendo il nostro eretico dal primo arresto in Venezia sino al rogo del 17 febbraio 1600 a Roma. L’inquadratura ha movimento liquido, ma costruzione geometrica: si muove lungo diagonali e verticali simmetriche, la macchina è per la maggior parte del tempo posta più in basso dell’azione che riprende ed è singolare il fatto che Giordano Bruno compaia sempre come una figura non immediatamente dinamica, anzi: mentre si animano cortei (quello celebrativo della Battaglia di Lepanto) e balli, la figura del filosofo si impone quasi venisse fuori da un quadro, quasi, meglio, si trattasse di un bassorilievo staccatosi dal gruppo marmoreo. Si accosta ai muri, li sfiora enigmatico come se la sua mente corresse più rapida del contesto che, per contrasto, mobile all’apparenza, è in realtà ideologicamente impenetrabile, granitico. Si scandisce così, nel periodo di un paio di scene, il rapporto tra l’individuo e il suo tempo: la sequenza del corteo celebrativo iniziale va letta in parallelo con la sfilata dei carcerati, dei delinquenti che vengono portati a Roma e dei prigionieri romani in fila per la razione di cibo. Giordano Bruno osserva, sta calato in questo flusso, la prima battuta che scandisce ha a che fare con la libertà: parla poco ma in modo puntuale, con rigore essenziale, guarda, agisce, è a Venezia per imparare; procede la narrazione e si fanno sempre più contrastivi i duetti rispetto ai cori nella dinamica dialogica, la solitudine intellettuale è sempre più marcata, eppure, Bruno in molti lascia un segno profondo senza nemmeno sfiorarli. Sul volto di Bruno, ora in primo piano con gli occhi attivi e lucenti, ora inquadrato in una stalla mentre predica il pensiero per associazione, la forza della logica delle corrispondenze e la sua sete di sapere che vorrebbe trasmettere a tutti, mentre discute esponendo placidamente il suo pensiero, sul suo volto si rifrangono le onde molli della laguna e si va formando la geometria della Vocazione di San Matteo. Quelle stesse onde molli si rifrangeranno poi sui volti dei veneziani a lui devoti quando il Senato deciderà di consegnarlo all’Inquisizione romana: la macchina scivolerà sui bronzi dorati dei soldati fino a fermarsi su quello indurito dalla consapevolezza della nobildonna Fosca (Charlotte Rampling), figura di donna piuttosto interessante, consapevole del proprio ruolo sociale, ma attratta dalla libertà di pensiero e che piano emerge cosciente anche politicamente. Mantegna e il suo Cristo morto, invece, giungono dopo la sequenza delle torture: la telecamera non inquadra più dal basso, ma sovrasta il corpo steso di Bruno prima di assumere la prospettiva del quadro anche durante l’incubo, scandito dai fulmini.

Montaldo e Storaro, che cura sapientemente la fotografia, riescono a rendere perfettamente omogenei il piano recitativo e quello visivo: l’impasto di colori e le geometrie allusive, la scelta di inquadrare spesso dal basso o le rapide zoomate che colgono la postura ideologica dei personaggi, di fatto costruiscono una sorta di tableau vivant dal ritmo serrato, agendo su contrasti piuttosto evidenti e altrettanto ragionati come il porre il Doge attorniato dai nobili, quasi soffocato dai drappeggi degli abiti mentre attraversa l’ampia sala del potere. La prigionia di Bruno ha la forma di una gondola che con la sua orizzontalità, a pelo dell’acqua, rompe lo schema morbido dei ponti, ed è un taglio di luce fredda nell’oscurità delle celle. La sua colpa è un mazzo di carte che non vuole leggere al nobile ospite che gli chiede insistentemente come si possa dominare la volontà degli altri. Ma Bruno non è un dominatore, uno stregone: è un filosofo. La libera ricerca è la sua filosofia e non il dogma. Volonté, che è decisamente iconico in questo ruolo – non soltanto perché offre a Giordano Bruno uno spessore difficilmente replicabile, ma perché mostra la forza del ruolo attorale nella dinamica narrativa – rompe l’illusione scenica un paio di volte: la prima quando viaggiando in mare verso Roma fissa la telecamera proprio dopo che ha spiegato l’esigenza della visione tolemaica non soltanto razionale, ma fisiologica, nell’equilibrio umano. Una nuova visione del cosmo è oramai necessaria anche per armonizzare politicamente il mondo. La seconda quando afferma che vivere può significare anche percorrere un lungo cammino che allontana da Dio introducendo un flashback nel quale rivediamo attraverso i suoi occhi la condanna di Bartolomeo Carranza, arcivescovo di Toledo. Ecco che comprendiamo meglio quel mescolarsi della macchina da presa a spalla, nell’esordio, tra la folla, come se la coscienza del filosofo errante si sdoppiasse e noi guardassimo la sua realtà attraverso la sua intelligenza e la sua acuta analisi. Per l’impostazione drammaturgica, si potrebbe fare riferimento a Schiller, al suo uso del Teatro come tribunale pubblico: il Cinema, in questo caso, raccontando la vicenda giuridica di Bruno, di fatto cita in giudizio il Potere in sé. In particolare, per il rilievo che Montaldo offre al dialogo nel quale l’inquisitore Fra’ Tragagliolo (Renato Scarpa) non dà ordine di eseguire la condanna a morte, ma sollecita il suo sottoposto, il governatore ad agire secondo coscienza, pare un calco del dramma Maria Stuarda in cui Schiller fa agire allo stesso modo Elisabetta II e, proprio come in Schiller, viene mostrato il rogo, non il corpo che brucia e che si decompone nel fuoco.

Il Potere, insomma, coincide con il sangue – il rosso cardinalizio è in contrasto con la tonaca scura di Bruno – che si sceglie di versare per mandato auto-conferito, senza assumersene poi la responsabilità definitiva. Perché questo film racconta del Potere, del fallimento di un uomo che ha creduto, attraverso il sapere, la consapevolezza, di potere combattere un sistema di superstizione, di ignoranza e violenza. Di un uomo solo che ha creduto di potere riformare la condizione degli uomini con l’aiuto di un principe illuminato. Eccoli i fallimenti di Bruno: Enrico III di Francia, Elisabetta d’Inghilterra, Rodolfo II d’Asburgo e perfino il papato. Solo sangue. Volonté si trasfigura, nelle prime scene il suo volto è vivo, in quelle finali sembra ripiegarsi in se stesso, solcato dalle torture e dalle sofferenze. Ma i suoi occhi lampeggiano incorrotti. Lavorare stanca, uccide proprio perché il lavoro, anche quello intellettuale, è libertà e in nessun tempo si vuole davvero proteggere questa istanza istintuale. Il nostro tempo non vuole avere idee, vuole risposte, etichette: sì o no, bianco o nero. Ma nella prigione, Storaro ci mostra che la luce può essere anche un diffuso degradarsi nell’oscurità e che nei mezzi toni c’è ricchezza di apprendimenti. La luce di Storaro in questo film si pone come apparato critico alla vicenda narrata e alla narrazione, insegna che quando il raggio entra nella finestra e disegna sul pavimento le forme delle finestre che ha trapassato scandendo il tempo, i buchi nell’irrealtà mostrano la realtà che è questione di faticosa emersione di solidità dal dubbio lattiginoso. Volonté, intervistato in un libricino gustoso[1] (per cinefili e non) diceva del suo ruolo d’attore qualcosa di decisamente interessante: «Io cerco di dare un contributo linguistico al film, e quindi quello che cerco è un rapporto dialettico con l’autore del film. Questo avviene sia prima che si inizino le riprese del film, sia durante le riprese. Ma questo non accade solo per il lavoro d’attore, accade anche per altri ruoli: direttore della fotografia, sceneggiatore, architetto, scenografo. […] Io sono per la partecipazione critica, per un rapporto dialettico con la materia complessiva del film, com’è organizzata, vista e raccontata dall’autore. Può darsi che questo in un certo cinema non accada, o accada meno; comunque là dove non accade, è un cinema che a me interessa poco».

Ecco l’attuale. Oggi, che non sappiamo quale Cinema verrà perché non capiamo come lo si possa fare senza incontrarsi per pensare, progettare, scrivere, girare, montare e poi vedere e quindi discutere un film, le parole di Volonté suonano come un monito per tutti. Per gli operatori, per i critici e per i lavoratori dello spettacolo, per il pubblico. Non solo la critica deve continuare a studiare, a fare ricerca, ma anche i lavoratori dello spettacolo devono tornare a fare critica e auto-critica. È tempo di lavoratori dello spettacolo che non rinuncino più ad essere intellettuali: non servirà tanto produrre una merce da consumare su schermi piccoli e immediatamente silenziabili, non servirà tanto produrre merce e magari in surplus, con manovalanza a basso costo, pur di dimostrare la propria esistenza ad un pubblico disinteressato (a ragione, in questo caso). Si tratterà di rifondare il senso dell’atto culturale in una società che non soffre e non fa rimostranze, che non discute né con i suoi artisti, né riguardo il loro silenzio o la loro sovraesposizione. Si tratterà di rifondare i linguaggi dell’atto culturale: sale vuote, proiezioni e dibattiti senza l’intervento dei giovani (distratti certo non solo per loro diretta responsabilità) e senza memoria, senza consapevolezza della Storia del Cinema ce n’erano già, ben prima del Covid-19. Spettatori assuefatti a prodotti che non possedevano struttura, contenuti, con una fotografia assente ed una colonna sonora stereotipata ce n’erano già: non sono una responsabilità di questi mesi di immobilità. Spesso persino nelle aule universitarie sono stati ospitati sedicenti artisti che dichiaravano il loro odio nei confronti del Cinema e dei suoi lavoratori con arroganza, salvo poi proporre filmini amatoriali autoprodotti come grandi novità crossmediali senza avere nessuna consapevolezza epistemologica, semantica e semiotica della loro stessa proposta e del loro stesso progetto (perché, di fatto, un progetto culturale in loro non esisteva e non esiste proprio).

Libertà intellettuale, libera ricerca e nessun dogma. L’insegnamento di Giordano Bruno e di quegli occhi che lampeggiano oltre lo schermo della telecamera, è un insegnamento attuale perché non offre risposte, ma si pone problematicamente in rapporto con la realtà. E anche attuale allora può avere una valenza positiva. «Per me un film è sempre abbastanza faticoso. Io faccio sempre una grande fatica, è faticoso il mio lavoro» diceva Volonté, sempre in quella intervista, in quel libricino gustoso nel quale si leggono anche i contributi di Laura Betti e Mariangela Melato.

Che sia faticoso anche il nostro lavoro: il nostro chiedere, il nostro dare. Pretendiamolo.

Note
[1] Mino Monicelli, Cinema Italiano, Ma cos’è questa crisi?, Bari, Editori Laterza, 1981, pp. 145 e seg.


di Irene Gianeselli
Condividi