Un panorama italiano alla Berlinale 70

Una panoramica sul cinema italiano presente all'ultima edizione della Berlinale, ultimo festival prima della crisi pandemica che ha sconvolto il mondo, e l'Europa in primo luogo. Forse mai come nel settantesimo anniversario del festival tedesco si era parlato così tanto la lingua di Dante.

Forse mai come nell’edizione del suo settantesimo anniversario la Berlinale ha parlato così tanto italiano. Oltre al nuovo co-direttore (Carlo Chatrian), ai due neo-selezionatori (Lorenzo Esposito e Sergio Fant) e al doppio premio ottenuto nel concorso ufficiale (“miglior sceneggiatura” a Favolacce, “miglior interpretazione maschile” a Elio Germano per Volevo nascondermi), il numero dei film made in Italy presente nel festival tedesco è stato infatti assai nutrito e ha avuto spazio in ben sei delle nove sezioni dalle quali era composto. Una corposa spedizione articolata nella riproposta di due lungometraggi del passato (Cesare non deve morire dei fratelli Taviani e Sole di Carlo Sironi) e ben otto nuovi – ai quali forse bisognerebbe aggiungere il Siberia di Abel Ferrara di cui Rai Cinema è uno dei co-produttori -, che ha denotato il buon stato di salute della nostra cinematografia. Basti pensare che, per ritrovare due titoli nel concorso della Berlinale, si deve tornare al 2001 (edizione in cui erano presenti Le fate ignoranti di Ferzan Ozpetek e Malèna di Giuseppe Tornatore), mentre bisogna risalire al 1994 per ritrovare un doppio riconoscimento da parte della giuria internazionale (con la menzione d’onore alla regia di Mario Monicelli per Cari fottutissimi amici e il premio “Der Blaue Engel” ad Alessandro Di Robilant per Il giudice ragazzino), e addirittura fino all’annus mirabilis 1991 per ritrovare una pluralità di “Orsi” – in quell’occasione La casa del sorriso di Marco Ferreri ottenne quello d’oro, mentre ben due orsi d’argento andarono a La condanna di Marco Bellocchio (“Gran premio della giuria”) e a Ricky Tognazzi per la regia di Ultrà. A ciò è necessario aggiungere che, con il riconoscimento per la “miglior interpretazione maschile”, Elio Germano è entrato in quella ristrettissima élite di attori capaci di ottenere il più alto riconoscimento per la propria categoria sia al Festival di Cannes che, appunto, alla Berlinale. Un’impresa che, prima di lui, in Italia era riuscita al solo Gian Maria Volonté.

Proprio l’attore di origine molisana è stato d’altronde il grande protagonista di questa edizione così prestigiosa per il cinema italiano. È lui infatti il tangibile trait d’union dei due film in concorso: opere apparentemente lontane in quanto formalmente assai diverse, ma che trovano il proprio comune denominatore nella (rappresentazione della) follia. Volevo nascondermi è infatti concepito come un biopic di Antonio Ligabue, il celebre artista naïf vissuto nella provincia di Reggio Emilia tra gli anni ’20 e i ’60 dopo un’infanzia travagliata in Svizzera e una serie di ricoveri psichiatrici. Un’operazione che a uno sguardo superficiale potrebbe apparire come il tentativo di replicare la fortunata miniserie televisiva (3 puntate per un complessivo running time di 200’) prodotta dalla RAI nel 1977, di cui fu protagonista Flavio Bucci in quella che resta la sua interpretazione più celebrata. In realtà al lavoro diretto da Salvatore Nocita, Volevo nascondermi sceglie deliberatamente di non guardare, tanto da differirne profondamente nella sostanza – mentre al contrario Antonio Ligabue, pittore, il documentario diretto da Raffaele Andreassi nel 1962 è molto più di un semplice riferimento.Se infatti l’idea del biopic è la medesima, il quarto lungometraggio di Giorgio Diritti è definito da una qualità emozionale il cui vigore risiede nella traduzione in chiave audiovisiva del percorso artistico di Ligabue. Come appare evidente fin dalla prima inquadratura infatti (una soggettiva del protagonista che guarda ciò che gli sta attorno da sotto un sacco), è proprio la sua percezione del mondo a essere assunta come matrice formale del film. Che infatti si snoda come un vero e proprio itinerario di immagini e suoni nel quale l’indocile sguardo dell’artista appare indissolubilmente legato alle – e in gran parte determinata dalle – idiosincrasie sonore di cui soffriva l’uomo. Un affascinante percorso in cui il largo uso che Diritti fa degli obiettivi grandangolari, da una parte traduce formalmente la presa di coscienza stilistica dell’artista – passando dall’iniziale reiterata sfocatura ai margini dell’inquadratura/quadro (in cui è facile ritrovare la consonanza con l’iniziale produzione pittorica, contraddistinta da tinte sbiadite e immagini sfumate) alla sua piena “messa a fuoco” -, dall’altra gli permette di riprodurne il rapporto diretto e fondativo con quella che è la sua principale fonte ispirazione, ovvero la Natura. Altrettanto funzionali al discorso del film sono poi le numerose “esplosioni” cromatiche in cui primeggia la dominante verde tipica della sua produzione pittorica, che assolvono al compito di tradurne la vis espressionista. Più che il percorso esistenziale di Ligabue dunque, Volevo nascondermi è un’opera che intende riprodurre quello espressivo dell’artista. Più che metterne in successione gli eventi salienti della biografia, intende ricostruirne l’universo poetico attraverso l’alfabeto emozionale dal quale è stato informato.

Se l’apporto di Elio Germano è fondamentale alla riuscita di Volevo nascondermi, non meno decisivo è il suo ruolo in Favolacce, il film dei fratelli D’Innocenzo che è stata la vera sorpresa del concorso della 70esima. Seppur inserito qui in una dimensione corale infatti, è proprio al suo personaggio (Bruno Placido) che è riservato toccare l’apice della climax del film, in quella che si è distinta come una delle sequenze più rimarchevoli di tutta Berlino70 – in quanto capace di coniugare l’intensità della performance attoriale (con PP finale di rara intensità) con l’appropriatezza della scelta formale (in cui campo e fuoricampo trovano un deflagrante equilibrio). Nonostante vi sia più di un elemento che lo ricollega al film d’esordio dei due gemelli registi (il pervasivo senso di morte, l’ambientazione suburbana), Favolacce è tuttavia sembrato un lavoro più compiuto de La terra dell’abbastanza, nel quale si registra un deciso – e per certi versi sorprendente – passo in avanti dal punto di vista stilistico. Sia per l’aspetto drammaturgico, con un maturo quanto seducente utilizzo della spaziotemporalità (cui contribuisce il montaggio di Esmeralda Calabria), sia per la consapevolezza discorsiva in grado di esprimere. Film mortifero e disturbante, quasi interamente ambientato in una torrida estate e strutturato come una serie di falsi specchi utilizzati per disorientare lo spettatore – a tal proposito vale la pena citare la frase con cui la voice over del narratore apre l’affabulazione: «Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata» -, il nucleo semantico di Favolacce è il malessere prodotto dall’inconciliabile rapporto tra il mondo degli adulti e quello dei bambini. Ovvero tra un mondo corrotto e spregevole e uno emotivamente impreparato, nel quale l’indecisione tra la via dell’emulazione e quella del rifiuto diventa il detonatore sociale.

La sezione “Berlinale Special Gala” ha invece ospitato Pinocchio, il decimo lungometraggio di Matteo Garrone già uscito nelle sale italiane a dicembre 2019. Un lavoro che, dopo la fortunata esperienza di Dogman, ne registra il ritorno al mondo sovrannaturale della fiaba dalle radici tipicamente italiane – già al centro de Il racconto dei raccontiattraverso una traduzione così fedele del romanzo di Collodi da mantenervi anche il nucleo semantico che lo informa, incentrato sui temi della povertà e della riscoperta del Padre. Un progetto a lungo accarezzato dal regista romano, nella cui trasposizione tuttavia la dimensione illustrativa rischia di soffocarne la vis allegorica. Proprio i disegni di Enrico Mazzanti, che ne fu il primo illustratore, sono infatti il principale riferimento per la rielaborazione dei diversi personaggi in chiave zoomorfica realizzata dall’autore, che fa un largo uso di trucchi prostetici e interventi digitali per restituire la dimensione del meraviglioso di cui è pervaso il romanzo. Riferimenti altrettanto importanti sono poi la pittura dei macchiaioli, dai quali il regista romano si fa ispirare per campiture e cromatismi, e soprattutto la celebre versione televisiva diretta da Comencini. Se però le suggestioni sono di alto profilo, la mostrificazione che da oltre un quindicennio contraddistingue il cinema garroniano sembra qui realizzata con meno incisività rispetto alle sue opere più compiute, venata com’è da un pittoricismo estetizzante in cui l’autore tende talvolta a rifugiarsi. Al punto che i pur cospicui aspetti positivi che compongono il film – come ad esempio le interpretazioni di Massimo Ceccherini e di Benigni, acclamatissimo prima e dopo la proiezione al “Palast” – sono sembrati passare in secondo piano.

Nella sezione “Panorama” era inserito Semina il vento, il secondo lungometraggio del pugliese Danilo Caputo ambientato tra le campagne della Manduria e incentrato sulla crisi prodotta dall’aggressione di un parassita (il Lyotrips ceruleus, conosciuto come il “pidocchio blu”) ai suoi secolari uliveti. Ne è protagonista la ventunenne agronoma Nica che, di ritorno dopo un’assenza di tre anni al proprio paese (San Marzano di san Giuseppe), si convince che la soluzione sia nel trovare l’“antagonista” del parassita, ovvero l’insetto in grado di aggredire e sterminarlo, ma deve però fare i conti con il malaffare che gravita intorno al suo territorio d’origine e in cui scopre essere coinvolto anche il padre. Un lavoro non privo di qualche nota lieta – come ad esempio l’amorevole sguardo con cui viene ritratta la Natura -, ma deficitario in più di un aspetto. Come l’esile script, la cui organizzazione attraverso polarità fisse e talvolta troppo esplicitate (ne è sintomatico esempio la presenza invasiva della fabbrica che fa da contraltare all’assenza della Nonna-maga, simbolica figura che incombe sulla protagonista e le sue scelte) ingabbia la narrazione in un esiziale schematismo. Oppure come le scelte di cast non del tutto – la protagonista interpretata da Yile Vianello, già giovanissima protagonista di Corpo celeste, è infatti un “corpo” troppo estraneo per risultare veramente credibile -, o addirittura per nulla convincenti – come succede nel caso dell’impalpabile interpretazione di Espedito Chionna nel ruolo del padre/Demetrio.

Ben due erano invece i titoli inseriti nella sezione “Forum”. La casa dell’amore è il terzo capitolo della cosiddetta “trilogia dell’appartamento” realizzata dal bergamasco Luca Ferri, che qui sceglie di raccontare il rapporto tra corpo e spazio abitato attraverso le vicende quotidiane della transessuale Bianca. Un lavoro che si fa complessivamente apprezzare, benché disorganico nelle scelte. Mentre infatti alcune di esse si adattano perfettamente al discorso – ad esempio quella del formato 4:3, che da una parte serve a esaltarne la claustrofilia che gli dà sostanza, dall’altra “costringe” lo sguardo nello spazio della rappresentazione evocando le simili modalità con le quali la protagonista agisce il proprio corpo -, altre invece non convincono pienamente – come quelle in cui lo sguardo documentario viene depotenziato da interventi di finzione. In Zeus Machine. L’invincibile Nadia Ranocchi e David Zamagni (due dei tre componenti del “gruppo Zapruder”) ripercorrono invece il mito di Ercole attraverso la riscrittura delle sue celebri “dodici fatiche” in chiave contemporanea. Affidando l’affabulazione a bizzarri performer e organizzandone le azioni in una surreale quanto ironica narrazione divisa in altrettanti segmenti. Un lavoro che si situa al confine tra riproduzione e sperimentazione e che si propone come una riflessione sul Mito e sui suoi lasciti, sul racconto e sulla sua (inevitabile) deflagrazione.

La sezione “Generation 14 plus” ospitava invece Palazzo di giustizia di Chiara Bellosi, la cui vicenda si sviluppa all’interno del palazzo di giustizia di Torino lungo un’intera giornata, durante la quale sei personaggi (tre uomini e tre donne) si ritrovano di fronte e sono dunque costretti a interagire e a confrontarsi. La narrazione è interamente organizzata sul rapporto tra il dentro e il fuori, ovvero tra ciò che avviene in aula (dove si dibatte sulla giustizia e sul suo senso) e ciò che invece avviene nelle immediate vicinanze, il controcampo sempre occultato in cui la vita continua però a scorrere e a trovare imprevedibili strade. Interessante dal punto di vista progettuale, l’esordio dell’autrice milanese (classe 1973) sembra tuttavia rimanere più nelle intenzioni che risolto negli esiti. Ancorato a una scrittura di matrice teatrale (la sceneggiatura è della stessa Bellosi) che, pur facendosi complessivamente apprezzare, finisce per denunciare qualche squilibrio drammaturgico (è caso del personaggio poco consistente dell’elettricista interpretato da Andrea Lattanzi). E soprattutto delegando la dimensione puramente cinematografica ai bei ma rari momenti in cui sceglie di seguire la giovanissima protagonista Luce.

A chiudere questa panoramica rimane Faith di Valentina Pedicini, titolo inserito nella “Critics’ week” della Berlinale e già precedentemente in concorso all’IDFA di Rotterdam. Girato in bianco e nero e incentrato sul racconto delle attività dei “guerrieri della luce” – una comunità di ventidue persone che da oltre vent’anni ha fondato un monastero sulle colline marchigiane nel quale pratica un regime monastico in cui l’osservanza religiosa si riflette nella pratica delle arti marziali -, il nuovo documentario della regista pugliese, come già avveniva nei precedenti lavori, mette ancora una volta al centro l’osservazione di una visione radicale. Se però il soggetto è affascinante e l’approccio rigoroso, Faith perde qualche punto sul piano strettamente drammaturgico, laddove con lo scorrere della narrazione si denota la mancanza di un’evoluzione. Una carenza che alla fine ne inficia il comunque buon risultato.


di Francesco Crispino
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