La percezione dello sguardo
In epoche di addizioni, dove l'accumulo è l'unico fine apparentemente perseguibile e il ritmo perpetuo, incessante, interminabile detta i tempi del respiro, scegliere di sottrarre è sempre impresa ardua, destinata a pochi coraggiosi – o folli. Nella Venezia in piena era-Covid, con il distanziamento sociale che ha prodotto uno smottamento della prassi evidente a chiunque abbia avuto modo di frequentare il Lido in anni meno tumultuosi, l'impressione è che a lavorare di sottrazione siano sempre meno registi, meno produzioni, meno oggetti cinematografici.
In epoche di addizioni, dove l’accumulo è l’unico fine apparentemente perseguibile e il ritmo perpetuo, incessante, interminabile detta i tempi del respiro, scegliere di sottrarre è sempre impresa ardua, destinata a pochi coraggiosi – o folli. Nella Venezia in piena era-Covid, con il distanziamento sociale che ha prodotto uno smottamento della prassi evidente a chiunque abbia avuto modo di frequentare il Lido in anni meno tumultuosi, l’impressione è che a lavorare di sottrazione siano sempre meno registi, meno produzioni, meno oggetti cinematografici. L’accumulo come necessità fagocitante, maniera fin troppo semplice per sentirsi vivi: vivi in quanto ansimanti, irrequieti ma prima ancora ossessivi, protesi unicamente in avanti, spaventati dal concetto stesso di stasi. Ci si sta ammalando fuori e intorno al Lido – e anche nel cuore della Mostra forse, chissà – e si percepisce un’ansia spasmodica di accatastare materiale, nei film che sono stati selezionati. Come ci fosse la necessità di ammonticchiare massa su massa, quasi a coprire l’orrido che si cela al di sotto della superficie, lo spazio vuoto. L’horror vacui come unico punto di caduta. Ecco dunque un proliferare di film dettagliati, finemente ricamati fino alle estreme conseguenze. È il cinema dell’ipersensibilità tecnologica – e quindi della tecnocrazia –, dove ogni singolo dettaglio è talmente visibile e studiabile da dover essere infiocchettato, abbellito. Un cinema di fronzoli, come quello che Gia Coppola, trentatreenne nipote di Francis Ford – è la figlia di Gian-Carlo, il figlio del regista che morì ventiduenne in un incidente nautico – allestisce nel suo Mainstream, secondo lungometraggio da lei diretto a sette anni di distanza dall’esordio Palo Alto, che era a sua volta a Venezia. Per quanto Gia Coppola firmi un pamphlet contro i rischi del mondo “social”, delle reti virtuali, dell’illusione della verità attraverso lo schermo, il suo film tracima di emoticon, cuoricini, pollici alzati o abbassati, scorie del contemporaneo cui Coppola non sa in ogni caso rinunciare, anche nell’enunciazione di una critica. La giovane discendente della stirpe coppoliana non è in grado di togliersi di dosso la corazza protettiva dell’immagine ipertrofica, della realtà aumentata. Il suo film ha il passo lento e tronfio dell’elefante, una massa specifica che è impensabile riuscire a portarsi appresso senza fare danni. Come molti altri esempi qui al Lido – su tutti il PADRENOSTRO di Claudio Noce, ma anche Amants di Nicole Garcia o The Book of Vision di Carlo Shalom Hintermann – non si fida dell’immagine nuda, e la ricopre di ogni finimento possibile e immaginabile. La ridondanza come scudo per non doversi permettere uno sguardo, svicolando dunque dal fine ultimo del cinema, e dell’arte dell’immagine nel suo complesso.
In questo senso non si può non apprezzare la “rozzezza”, così come da molti qui al Lido è stata definita, di Jasmila Žbanić e del suo Quo Vadis, Aida?, ricostruzione del genocidio che a Srebrenica fu perpetrato dall’esercito serbo contro la popolazione bosniaca senza che l’ONU avesse un granché da ridire. Quella nettezza, forse anche ruvida o cinematograficamente poco esaltante, rappresenta la scelta di esentarsi dall’abbellimento per mettere in scena la Storia, privandosi di ogni scappatoia melodrammatica, sentimentale, di ogni movimento di macchina pretestuoso. Alla barbarie si risponde con la brutalità dell’immagine – e quanto avrebbe da imparare Noce, ma anche Kornél Mundruczó, sotto questo punto di vista –, né più né meno. Per questo non si può che apprezzare la scelta di Žbanić, che è a ben vedere simile a quella compiuta da un’altra donna proveniente dall’Est Europa, l’esordiente Natalya Vorozhbit che ha portato al Lido Pohani dorogy | Bad Roads, scelto da Giona A. Nazzaro e dalla sua squadra di selezionatori per aprire ufficialmente il concorso della Settimana Internazionale della Critica. Quattro storie, solo in modo molto labile legate tra loro, che raccontano quattro istanti della situazione ucraina contemporanea. Ma il centro non è il Donbass e il conflitto che da anni insanguina quelle popolazioni. Il centro è l’immagine della guerra in sé, e il modo in cui può essere trasposta in finzione senza scivolare nelle trappole dell’intrattenimento (quel mainstream di cui è vittima/carnefice Gia Coppola). Vorozhbit vi riesce con una naturalezza sorprendente, evitando anche il rischiosissimo racconto della violenza dell’uomo sulla donna – in che modo si può fingere lo stupro senza rischiare di solleticare la propria velleità scopica? –, e tracciando una linea di demarcazione in grado di dividere con estrema precisione l’accettabile dall’intollerabile. In questo sguardo, e nella sua percezione, si coglie la potenzialità ancora e perennemente attuale del cinema, come anche nell’ottimo Kitoboy | The Whaler Boy di Philipp Yuryev, presentato alle Giornate degli Autori. Ripartire da qui, evitando emoticon e pollici alzati, per riaprire gli occhi sul cinema. Sull’immagine e sul suo senso.
di Raffaele Meale