Paris, Texas

La recensione di Paris, Texas, di Wim Wenders, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Ogni scena, ogni inquadratura deve emanare leggerezza e calma. Il film come forma che tende alla chiusura, ma allo stesso tempo tende a rompere gli argini: diventa significativo proprio nelle fessure degli argini, dove qualcosa sfugge”: lo ha detto Wim Wenders, ed è un pensiero perfettamente adatto al suo cinema, dove tutto sembra perfettamente levigato, salvo poi sfumare in qualcos’altro, con il tempo, perdendosi in un labirinto di senso che è la sua opera.

Il problema dell’immagine, del significato e del significante, la riproducibilità del pensiero, lo smarrimento: sono tutte caratteristiche e ossessioni di un cinema complesso e stratificato, proteso verso le strade del pensiero e geografiche che partono da uno schema narrativo tradizionale per poi avvolgersi su sé stesse in totem di senso.

La perfetta fusione tra viandante e percorso, ad esempio, è all’interno di Paris, Texas, il film del 1984: come se l’individualità del protagonista potesse fondersi con la strada che percorre, perché l’ambiente attorno a noi è molto più incisivo e determinante di ciò che possiamo credere. La riflessione, qui, porta a riflettere sulle emozioni, sugli affetti, sul rapporto padre/madre/figlio, e alla fine sulla realtà sfuggente delle illusioni, come il riflesso nello specchio del peep-show della storia interpretata da Nastassia Kinski. Una storia nella quale, sul finale l’unico modo pere sulla strada e lasciare che sia lei a determinare il percorso, in un are che sia lei a determinare il percorso, in un percorso circolare ed eterno, un’odissea in uno spazio interiore ed esterno.

È questa la radicale idea che il cinema wendersiano sia invaso sempre dallo Spazio, l’ambiente come la matrice da cui proviene ogni azione: l’azione diventa la conseguenza dello spazio nel quale si svolge, invertendo di fatto una totale inversione dei rapporti gerarchici tra gli elementi della narrazione: le scelte dei personaggi non influenzano lo spazio esterno, non trasformano il luogo, ma al contrario i personaggi devono modellare le loro azioni in base al paesaggio che lo sovrasta.

Lo Spazio è quindi vivo, fin da Alice nella Città (1973) e per dirla con Heidegger: l’essere è concepito come Evento, è un Essere in un ambiente con il quale non può evitare di confrontarsi.

E allora, in Paris, Texas lo spazio è il deserto, che esemplifica il vuoto, la solitudine, quel silenzio nel quale l’uomo irrompe e dal quale vuole fuggire.


di Gianlorenzo Franzì
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