Miss Violence

Una bambina di undici anni vestita con un delicato abito giallo spegne le candeline sulla torta. La sua festa di compleanno è vissuta in famiglia. Tutto sembra spensierato e normale. Il suo suicidio arriva come un fulmine a ciel sereno, come una ferita terribile che con il passare del tempo diventa sempre più infetta fino a distruggere il corpo dell’intero nucleo familiare.

Miss Violence di Alexandros Avranas è un’opera incentrata su uno stile molto preciso: silenzi, sguardi, azioni secche e violente. Spazi casalinghi ordinati e puliti, in cui tutto sembra essere disposto geometricamente e in cui ogni angolo custodisce uno squallido segreto. In quest’area privata tutti i personaggi si muovono meccanicamente, in modo rigido. Nulla può essere fatto senza il permesso del capo-famiglia, un nonno-padre durissimo, inflessibile e totalmente incapace di abbandonarsi a impulsi affettivi disinteressati. Il sentimento che regna nella casa è quello del terrore. Una paura agghiacciante accompagna i pensieri di tutti i personaggi soggiogati da un “padrone” che appare algido e implacabile.

La macchina da presa seziona la superficie casalinga, inquadra dettagli, oggetti, cibo. Ma sono gli sguardi degli individui che la abitano (dunque i primi piani) a narrare l’orrore nascosto che caratterizza ogni istante familiare. L’abitazione, così, da luogo di sicurezza e tranquillità si trasforma in una sorta di lager, in cui ognuno è costretto a fare qualcosa contro la sua volontà e in cui regna la sopraffazione di uno solo su tutti. E la sopraffazione oltre che fisica è anche mentale, maligna nella sua sottile ambiguità e feroce nella sua applicazione pratica.

Fin dalle prime sequenze si comprende l’intenzione da parte di Alexandros Avranas di elaborare un universo concentrazionario mascherato grazie a un tono esistenziale (falso) piccolo-borghese. La casa è dignitosa ma nelle sue stanze avvengono abusi inenarrabili, mai detti, mai rivelati, mai comunicati all’esterno. Il “nonno-padre-padrone” si manifesta con il suo atteggiamento autoritario, serio e algido. Concede un po’ di vera attenzione agli altri solo dopo aver sfogato le sue ossessioni e “gioca” (come lui stesso afferma) con figli e nipoti a suo piacimento.

È, quella orchestrata dal regista greco, la rappresentazione di un sistema che vede nella famiglia l’abisso totale, il non senso puro, l’oscurità della follia umana, la banalità del male. In qualche caso i personaggi sembrano guardare in macchina, quasi per comunicare agli spettatori la loro immane sofferenza e per mostrare a chi guarda che la violenza tenebrosa che viene esercitata su donne e bambini purtroppo non riguarda solo la finzione filmica.
Sotto questo punto di vista Miss Violence è un film che, a parte le questioni stilistiche che lo contraddistinguono, si configura come un lungometraggio realistico. Vicende come quella raccontata da Alexandros Avranas, purtroppo, sono all’ordine del giorno e sollevano il problema gigantesco della brutalità casalinga. Alla fine, le donne protagoniste del film troveranno il modo di risollevarsi attraverso un gesto estremo e definitivo che pur liberandole dalla presenza malata di chi le violentava le trasporterà nuovamente in una condizione di tormento.

Miss Violence è, dunque, un’opera che racconta una ribellione e un riscatto femminile che però non cancellerà mai il dolore delle umiliazioni subite e che descrive con lucidità uno dei problemi sociali più diffusi nel mondo contemporaneo, problema su cui però nella realtà cala spesso un tragico e insopportabile velo di omertà.

TRAMA

Angeliki è una bambina di undici anni delicata e sensibile. Il giorno del suo compleanno decide di suicidarsi buttandosi dal balcone di casa. L’evento, ovviamente, sarà una vera e propria tragedia per la famiglia. Ma la realtà è molto più angosciosa di quanto si possa pensare. Tutti, infatti, sono soggiogati da una nonno-padre-padrone violento quanto ambiguo e mellifluo. Solo alla fine la moglie troverà il coraggio di ribellarsi.

Per concessione della testata giornalistica  CultFrame 09/2013©


di Maurizio G. De Bonis
Condividi