Un castello in Italia

Alla sua terza prova da regista (in una carriera d’attrice, divisa tra teatro e cinema, ormai trentennale) Valeria Bruni Tedeschi realizza infine il suo film più scopertamente autobiografico e anche più maturo, anche sul piano formale,  rispetto agli incerti tentativi precedenti (E’ più facile per un cammello…, 2003; Attrici, 2007). Il puzzle biografico resta certo incompleto, ma qua si compone al meglio forse anche perché l’autrice rinuncia a evocare la figura da sempre ingombrante della sorella Carla (in Sarkozy). In compenso, ci offre –  insieme alle fidate co-sceneggiatrici Agnès De Sacy e Noémie Lvovsky (in un cast tecnico di sole donne) –  nelle cangianti, ma sempre inconfondibilmente femminili, prospettive di figlia, sorella, amante e madre mancata, il racconto di drammi privati e familiari, la malattia e il lutto, le ricchezze senza eredi destinate alla malora, il sogno ostinato di una maternità, la continua ricerca d’amore. Ma nel film – ed è il suo bello – “è come se la tragedia inciampasse di continuo nella commedia, anzi nella comica, e ti aspetti che arrivano le torte in faccia”.  Lo ha detto – condensandone in poche parole la cifra stilistica –  Filippo Timi a Milano presentando Un castello in Italia (o, se vi suona meglio, Un château en Italie) insieme a Vieri Razzini che con Teodora lo distribuisce e ne ha correttamente mantenuto, grazie ai sottotitoli, l’originale mix linguistico italo-francese.  Lo stesso accade anche in Francia, dove il film è uscito quasi in contemporanea ma era atteso con maggior curiosità, per il cognome della regista e perché, a sorpresa, era l’unico film diretto da una donna in concorso a Cannes.

Il personaggio di Timi   –  quello del vero fratello della regista, Virginio, morto di Aids nel 2006 e al quale il film è dedicato –  è del resto un po’ il fulcro, quantomeno emozionale, della narrazione. Come ha dichiarato la regista e come l’attore ha ribadito, la scelta tra i vari candidati a quel ruolo è stata determinata da somiglianze e affinità interiori (fisicamente Timi era assai diverso dal fratello). La scelta, assai azzeccata, esalta  l’ambivalenza  e le ambiguità, tipiche del mondo infantile, che connotano il rapporto, centrale nella vicenda, tra fratello e sorella (si pensi alle numerose scene di “finzione” sadomasochistica tra i due, o alle complicità che li legano, come negli scoppi improvvisi di riso in situazioni pubbliche). Pochissimi attori oggi, e Timi è tra quelli, possiedono la capacità di racchiudere al tempo stesso ferocia e dolcezza in una maschera espressiva apparentemente stralunata ma sempre imprevedibile e inquietante.

Il film inizia in pieno inverno, presso un austero monastero dove la protagonista Louise (Bruni Tedeschi) ha trascorso la notte. Sin dalle prime sequenze, la regista ci  svela il tono dell’insieme: un lento carrello in avanti sui titoli di testa stringe verso un gruppo di monaci riuniti in un dolce e melodioso canto sacro; poco dopo la vediamo genuflessa nella neve accanto a un prete; perso il treno per tornare a Parigi la vediamo vagare per una radura dove incontra l’attor giovane Nathan (Louis  Garrel, suo ex compagno nella vita) che in lei riconosce l’attrice che fu (anni prima)  e, in preda a un poco probabile coup de foudre, le dichiara il suo amore, non tardando a materializzarsi sotto la sua abitazione…Tutto il film si snoda così, in un continuo scarto tra autobiografia e  romanzesco, attraverso le stagioni, tra i maestosi paesaggi piemontesi attorno al castello di famiglia e la sempre frenetica Parigi, tra momenti di stasi e accelerazioni improvvise, alternando piani lunghissimi e molto ravvicinati, come quelli degli incontri con l’amante e con il fratello,  in un montaggio fluido,  guidato dall’impasto di “alto” e “basso” della colonna sonora. Un film anche corale, dove spiccano i ruoli della madre (la vera madre della regista Marisa Borini) e dell’ “amico di famiglia” Serge (il regista Xavier Beauvois), il cameo di Omar Sharif, Pippo Delbono che fa il prete e Silvio Orlando, un po’ sprecato come sindaco del borgo di Castagneto (per inciso, anche la recitazione della Bruni Tedeschi, tipicamente svagata, risulta qua magicamente aderente al racconto).

Tra sogno e disincanto, la chiave resta sempre autoironica. Certo la critica alla classe sociale di appartenenza (l’alta borghesia imprenditrice torinese) piuttosto che ai rituali  religiosi – che spesso confinano con la superstizione, specie in materia di fecondità – si nutre spesso di cliché (solo in parte voluti) ma anche di guizzi esilaranti (come l’episodio napoletano, che preferiamo non svelare). Ma – sebbene la regista ci depisti con riferimenti a Checov e Bellocchio – non si poteva chiederle anche la denuncia sociale in un’opera in cui ha comunque messo a nudo la sua vita (o buona parte di essa). Godiamola così,   senza troppi rovelli ideologici come un gesto di sofferta ed affettuosa riconciliazione con il passato (compresa la clip della Pavone-Gian Burrasca sui titoli di coda).

Trama

Una donna, Louise, incontra un giovane uomo, Nathan. I suoi sogni sembrano realizzarsi. È anche la storia di suo fratello Ludovic,  della loro madre, e di una grande famiglia della borghesia industriale italiana. La storia di una famiglia, tra Italia e Francia,  e del suo drammatico declino: il fratello è gravemente malato e i debiti costringono la madre a vendere la grande casa di famiglia, il castello in Italia.


di Sergio Di Giorgi
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