Love Lies Bleeding

La recensione di Love Lies Bleeding, di Rose Glass, a cura di Alessandro Amato.

Il cinema si è presto identificato con il desiderio. È una evidenza che riscontriamo già nei primi discorsi teorici delle avanguardie storiche, per poi individuarne uno sviluppo persino feticistico nella produzione critica del gruppo Nouvelle Vague. E da quando si è conformato l’atto bramante dello sguardo come rapporto di potere e violenza, in particolare a partire dalle riflessioni femministe applicate all’analisi del film negli anni settanta, l’indagine di questo aspetto è diventato prioritario. Ci si è in seguito interrogati su quanto sia importante la natura del punto di vista scelto e quanto effettivamente, in relazione a questo presupposto, cambi l’espressione di un sentimento. È ciò che chiamano postpostmodernità: un momento raffigurativo, quello a noi contemporaneo, che non può prescindere dal considerare, rendendo quasi automatico interrogarsi sulle implicazioni etiche dell’immagine intesa come proiezione dell’inconscio prima ancora di stabilire una messa in scena.

Alla luce di questo percorso, Love Lies Bleeding di Rose Glass risulta particolarmente interessante per capacità di sintesi ed efficacia realizzativa. La solitaria Lou, responsabile di una palestra, si innamora dell’ambiziosa culturista senza dimora Jackie, la quale finisce per lavorare ad insaputa di entrambe nel poligono di tiro di proprietà del padre dell’altra, mafiosetto locale. La frequentazione delle due giovani si fa complicata quando la prima procura degli steroidi di cui la seconda abusa per partecipare a una competizione a Las Vegas. Seguono vicissitudini anche soprannaturali, dal sapore squisitamente simbolico, ma aggiungere altro sulla trama sarebbe a sua volta un illecito, quasi una forma di tradimento per un’opera dalle molte suggestioni certo narrative ma soprattutto visive. Ne è esempio il momento in cui Lou vede per la prima volta Jackie, quello sguardo fotografato con consapevole eccesso di partecipazione, tra la colonna sonora travolgente di Clint Mansell, storico complice di Darren Aronofsky, e l’immagine rallentata sulla carne deflagrante della body builder.   

Al secondo film dopo il sorprendente horror psicologico Santa Maud (2019), dove Morfydd Clark vestiva i panni di un’infermiera cattolica la cui fede si deforma in autoflaggellazione per sfociare in delitto, la regista inglese propone una nuova lettura dello stare al mondo in un contesto privo di punti di riferimento. L’ambiguo carisma di Kristen Stewart assume, come già fatto per autori del calibro di Olivier Assayas e Pablo Larraìn, una dimensione prismatica attraverso la quale riprodurre la complessità della realtà umana. La sua Lou è cresciuta in un contesto, la profonda provincia statunitense, che non prevede una particolare educazione sentimentale. L’unico modello genitoriale disponibile, se non ne tenesse le distanze, è deprecabile a dire poco. Ed è proprio il peso dell’esserne consapevole a costituire l’origine del suo percorso di autodeterminazione, di cui l’incontro con Jackie rappresenta quindi solo l’evento scatenante. Love Lies Bleeding è un dramma dai connotati grotteschi, disorientanti, ma dal cuore che gronda empatia nei confronti dei personaggi. Un’opera coesa nonché coerente all’immaginario in evoluzione di un’autrice millennial (come tutte le attrici citate in precedenza) fra le più promettenti del panorama cinematografico contemporaneo.


di Alessandro Amato
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