L’infinita fabbrica del Duomo

C’è un compito che molti filmmaker oggi nel mondo si sono assunti: rintracciare e raccontare la memoria degli uomini e delle donne, e in special modo, dunque, la memoria del loro lavoro. E‘ un compito crediamo fondamentale, e in certo senso “provvidenziale”, in questi tempi bui di violenza e cinismo imperanti, ma anche di svilimento sistematico del senso e del ruolo centrale del lavoro nella costruzione di una identità sociale e individuale; tempi spesso talmente “insostenibili” che il disimpegno, l’indifferenza, e infine l’oblio, quand’anche non imposti o indotti, come spesso constatiamo, dal mondo esterno, diventano per molti quasi una strategia di autodifesa.
Tra quei cineasti del presente e del reale – e nella schiera dei più rigorosi e talentuosi – va sicuramente annoverata la coppia di autori italiani Massimo D’Anolfi e Martina Parenti che vivono e operano . a Milano e che insieme, negli ultimi dieci anni, hanno realizzato alcune opere ormai referenziali per chi ama un cinema mai scontato e spesso anche scomodo. Un cinema che fruga tra le pieghe e nelle “crepe” della Storia e della società, che richiede dallo spettatore un’attenzione piena e partecipe, forse anche un plus di fiducia e resistenza, offrendo in cambio, anziché atteggiamenti collusivi o facili identificazioni emotive, il coinvolgimento in un viaggio che è sempre lucida riflessione e magica scoperta, tra il “basso” e l’”alto”: tra gli abissi di oscure e tossiche “materie” e la vertigine dell’incontro con l’Altro da noi, sia esso persona fisica, sempre umana, mai “straniera”, o istanza spirituale. Come forse nessuno tra i filmmaker italiani contemporanei, D’Anolfi e Parenti hanno osato portare la camera presso istituzioni, luoghi, comunità sociali di notevole complessità: la burocrazia pubblica o giovani imprenditori alle prese con le sfide di un mondo dalle mille culture (I promessi sposi , 2007, Grandi speranze, 2009), l’hub aeroportuale di Malpensa de Il castello (2011), il poligono militare di Salto di Quirra in Sardegna e l’habitat umano e naturale attorno ad esso sconvolto ormai da sessant’anni in Materia oscura (2013). In tutti questi luoghi hanno voluto e saputo – poiché si danno sempre tempo per pensare e realizzare i loro progetti, in prima istanza autoprodotti – aspettare pazientemente che giungessero e accadessero incontri, istanti, immagini.
A tributargli un meritato omaggio è stato nei giorni scorsi il neonato festival milanese Visioni dal mondo, dove, in sequenza, sono stati proiettati Il castello, Materia oscura e il loro lavoro più recente, L’infinita fabbrica del Duomo (2015), proiezione quest’ultima che ha riempito ancora una volta la sala, così come era accaduto solo pochi giorni prima per l’anteprima milanese in concorso a Filmmaker edizione n. 35.
Il debutto internazionale del film era stato peraltro in estate al festival di Locarno (nella nuova sezione “Signs of Life”). Là si era appreso che il film è in realtà il primo volet, reso poi autonomo sul piano narrativo, di Spira Mirabilis, un nuovo ambizioso progetto in progress dei due registi, composto quattro parti (oltre a un prologo e a un epilogo), per i cui successivi tasselli hanno viaggiato dal Giappone alla Svizzera e si sono spinti persino tra gli indiani d’America. Il progetto nel suo insieme intende affrontare uno dei temi centrali della loro poetica, ovvero il rapporto tra l’uomo e gli elementi fondamentali della natura (in tale cornice, questo primo film parla della terra, della materia). Ma pure, all’incrocio tra scienza e metafisica, tra relatività e assoluto, vuole parlare del tempo e del suo divenire.
In realtà, scegliendo di raccontare una storia collettiva lunga oltre sei secoli come quella della nascita e del continuo e complesso mantenimento del Duomo di Milano – la celebre e persino proverbiale, e non solo per i milanesi, “veneranda fabbrica” – D’Anolfi e Parenti trovano il contesto ideale dove esplorare a fondo la tensione dialettica, che ha luogo tanto nella cultura sociale come nell’etica individuale, tra diversi opposti: il sacro e il profano, l’infinito e il finito, ecc. L’altezza della sfida era davvero vertiginosa. Del resto, da un lavoro all’altro, è come se D’Anolfi e Parenti alzassero di continuo l’asticella sfidando se stessi, in primo luogo, oltre che gli spettatori. Ma, ancora una volta, l’esito del loro cinema riesce a trasmettere, a nostro giudizio, quello stupore e meraviglia (taumazein) per il cosmo e il suo ordine (è questo che kósmos vuol dire in greco, opposto a kάος, il disordine, ma anche voragine senza fondo) e al tempo stesso per le capacità inesauribili della umana creatività.
L’infinita fabbrica del Duomo è per noi dunque un vero e proprio poema visivo e sonoro, scandito da un paratesto di quadri e didascalie, tra il serio e l’ironico, da cinema muto o “documentario”, di numero e frequenza forse anche eccessivi, ma che nelle intenzioni dei due registi compensano, da un lato, il lavoro, qua ancor più radicale che in passato, di sottrazione della parola, e, dall’altro, enfatizzano il tono favolistico e la dimensione leggendaria delle vicende. Le quali infatti prendono le mosse dal sogno demoniaco di Gian Galeazzo Visconti che darà il là alla costruzione dell’edificio, cui nei secoli, come minuziosamente annotato dai registri contabili, più dei ricchi diedero sostegno pecuniario i più poveri, e persino (per calcolo o per vocazione) le prostitute.
Nonostante la dimensione sicuramente più ampia e “trascendente” che connota il campo d’indagine del film, vi si ritrovano molti degli assunti di fondo della poetica degli autori e del loro “cinema d’osservazione”. Attento, più che alle forme esteriori del potere e delle organizzazioni, alla ricerca della loro “meccanica”: le strutture, i processi, le competenze, in questo applicando la lezione dell’amato e altrettanto studiato Frederick Wiseman, ma interessati, ci sembra di poter dire, ai meccanismi più del fare che del dire, alle azioni e alle loro conseguenze dirette prima e oltre che alle dinamiche relazionali.
Forse anche per questo nel film vediamo appena i volti delle tante figure che vi compaiono (del resto, per i due registi quella del Duomo milanese è un’ “epopea dei senza volto”). In compenso, vi scorre una forte attenzione al lavoro delle mani dell’uomo, ai suoi gesti sapienti, creativi ma precisi, anche quando minimi, umili, in apparenza insignificanti. Lavori però mai “in serie” e che invece richiedono sempre cura, abilità, attenzione, pazienza. E’ infatti quella del Duomo una fabbrica davvero infinita di mestieri e competenze manuali: marmisti, muratori, carpentieri, fabbri, restauratori, orafi. Al tempo stesso, l’attenzione degli autori è rivolta all’oggetto relazionale di questo lavoro, sia esso la materia grezza che poi diventa statua, oro, creazione artistica, o dei semplici lumini votivi da spegnere, o grate da ripulire, o volumi più o meno antichi da pulire, riporre, trasportare.
C’è una naturalezza, a volte persino una spensieratezza, del gesto – anche nei lavori più complessi come quelli creativi degli artisti – che da sempre ci affascina (ce lo aveva ricordato di recente anche l’interessante documentario di Francesco Clerici, Il gesto delle mani). E anche nel film di D’Anolfi e Parenti il lavoro delle mani non è il gesto compiuto in solitudine dal creatore (artista o artigiano), ma avviene sempre in una dimensione di coppia o gruppo professionale, o comunque all’interno di una, sia pure invisibile, filiera operativa e organizzativa. Il dialogo, costante, tra l’uomo e il contesto, rende il gesto unico e irripetibile. In questo, L’infinita fabbrica ci ha ricordato anche il bellissimo Atto unico di Yannis Kounellis (2007) con cui Ermanno Olmi aveva pedinato momento per momento l’allestimento della mostra che anni fa aveva inaugurato la Fondazione Pomodoro a Milano, mettendo in risonanza il gesto creatore dell’artista con i gesti e il lavoro degli operai.
Ma nel film di D’Anolfi e Parenti scopriamo anche un’umanità del gesto anche più semplice e apparentemente povero di saperi, che ci colpisce e ci commuove. La ragione è forse in quella consapevolezza che i movimenti parcellizzati di operai e operaie alla catene di montaggio (oggi sostituiti sempre più dalle macchine e dai software, ma che ancora perdurano, eccome, in tante lavorazioni, si pensi solo al tessile) avevano perduto: il far parte e abitare un organismo vivente (e non solo un organigramma), multiforme ma impegnato in obiettivi condivisi e in qualche modo dinamici, che adattano la “fabbrica” alle evoluzioni, culturali, tecnologiche, ecc. dei tempi. Un’altra testimonianza sono a tal riguardo le sequenze delle operazioni connesse allo spegnimento serale (e poi alla riaccensione mattutina) delle mille luci all’interno del Duomo, ma anche alla chiusura delle tante porte e passaggi e soglie che lo separano dal mondo esterno.
Sarà anche per quella cura e precisione che richiede, o per la nozione della sua importanza e “sacralità” – spirituale e laica a un tempo – che possiede e trasmette, che il lavoro ha qui bisogno di poche e misurate parole, e semmai è accompagnato da silenzi, peraltro assai eloquenti, o da voci sommesse, sussurri, bisbiglii. E, a coerenza con questa scelta, narrativa e stilistica, si pone il preciso lavoro sul suono operato da Massimo Mariani, ormai complice fidato dei due registi. Abbandonando questa volta la presa diretta, a Mariani è stato affidato il compito di creare e montare una partitura musicale e sonora, evocativa, spiazzante e a volte anche perturbante: suoni e rumori ricostruiti e reinventati, battiti e pulsazioni, distorsioni, ecc.
Infine, ciò che prosegue ma al tempo stesso radicalizza qui l’approccio visuale e poetico dei due registi è la scelta del punto di vista, con prospettive spesso assai ardite, del film: quello, come essi hanno rivelato, delle “macchine al lavoro”. Dai carroponti sospesi nel vuoto che nelle stranianti sequenze iniziali guidano gli operai che sventrano la roccia per estrarre il marmo di Candoglia (un gesto primario di violenza dell’uomo verso la natura che è comunque alla base di ogni tempio edificato), ai montacarichi che guidano i percorsi ascendenti e discendenti all’interno di tanti e diversi ambienti lavorativi, ai droni e muletti per le riprese aeree (tra qui anche poetiche sequenze tra le guglie del Duomo e gli edifici circostanti) e gli incerti camminamenti delle statue verso un posto segreto, scoperto dai registi nella periferia milanese, un vero e proprio “cimitero delle statue”, dove – chiudendo una “mirabile spirale” del film – Sant’Eulalia raggiungerà San Cirillo…
In un film che ancor meno dei precedenti cerca o ha bisogno di “personaggi” e di sguardi meramente umani, man mano che la narrazione procede sembra che proprio alle statue – umanizzate al pari delle macchine – i due registi affidino la loro prospettiva ultima. Al pari degli innumerevoli lavoratori del Duomo rimasti per secoli senza volto, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti riscattano dall’oblio le tante statue consumate e rovinate dal tempo e dalla mancanza di “spettatori” (fedeli e compagni di viaggio con cui dialogare), riconsegnando a noi e al nostro futuro le storie e le leggende che gli uni e le altre raccontano e tramandano.
La straordinaria fabbrica(zione) sempre rinnovata del Duomo di Milano è filmata alla luce della sacralità di un monumento che vive di tempi, ritmi, calendari, aspirazioni che si fondono e trascendono il lavoro umano. L’anonima, umile, operosa e quotidiana cura che una struttura come il Duomo ha richiesto e ancora richiede, rivela quella grandiosità dell’agire umano in grado di travalicare il tempo e le generazioni e di racchiudere in se stessa un grande sentimento umanista.
di Sergio Di Giorgi