Le ricette della Signora Toku
Ai fagioli rossi, segreto dei dolcetti dorayaki, si può anche parlare. Lo fa l’anziana Toku, avvolta in un cappotto e nascosta dietro grandi occhiali colorati, mentre prepara l’an, la marmellata di fagioli, il cuore dei dorayaki. Dalla scelta dei legumi al lavaggio, dalla prima bollitura alla cottura con lo zucchero. Senza fretta, in una società frenetica. Toku entra in cucina prima dell’alba, sa tutto a memoria, ma deve ascoltare il borbottio della bollitura, annusare l’aria satura dei vapori della cottura e girare il cucchiaio molto lentamente, sempre sussurrando ai legumi.
Non è (solo) un film sulla cucina Le ricette della signora Toku di Naomi Kawase, anche se il cinema gastronomico ha un suo nobile spazio in Giappone (in occasione dell’Expo milanese l’Istituto culturale nipponico ha presentato, sotto il titolo “Cinema da gustare”, una rassegna di otto film sul tema). La cucina, in Giappone forse più che altrove, è cultura, è rapporto umano, è vita. Il film della Kawase racconta un’attesa, la necessità di corrispondere, la capacità di aprirsi agli altri, la necessità di superare le proprie paure e i propri pregiudizi nel deserto dei sentimenti. Attorno alle pentole e alla piastra di cottura si raccolgono tre personaggi traditi dalla vita e irrimediabilmente soli: Sentaro, il gestore del locale, fedina penale sporca, oberato dai debiti, con il vizio del bere, la vecchia Toku, vittima dell’esclusione sociale dall’adolescenza perché colpita dalla lebbra, che saluta gli alberi e affida al cibo l’ultimo tentativo di entrare in rapporto con la società, la giovane e taciturna Wakana, senza affetti in famiglia, un canarino giallo da accudire.
Kawase, tre volte premiata a Cannes e che con questo film ha aperto Un certain régard 2015, racconta questa storia di ambiente urbano lasciandosi contaminare dalla natura, colta con semplici e ripetuti tocchi di pennello. Come la sua protagonista, la regista sa parlare con gli alberi, cattura il loro fruscio e dedica all’osservazione della natura la stessa attenzione con cui segue la bollitura dei fagioli. Tra tram e treni soprelevati, ecco viali alberati, parchi, giardini e agricoltori che essiccano i fagioli. Tutta la storia è incardinata tra due fioriture di alberi di ciliegio. Il rosa chiaro dei loro fiori è un elemento pittorico che assume un significato simbolico e accompagna il dramma. Sono fiori destinati a una vita brevissima, cadono al suolo quattro o cinque giorni dopo il loro sbocciare, giusto il tempo per lasciare sui rami il verde che accompagnerà la nascita del frutto.
La sceneggiatura, firmata dalla stessa regista, è però discontinua. Strada facendo si carica di ambizioni che non riesce a soddisfare. La prima parte del racconto con il pudico incontro tra Sentaro e Toku, premessa di significati nascosti che gradualmente usciranno in superficie, è esemplare. L’elegia dell’an, impagabile. Il tono “documentaristico”, la sobrietà e l’immediatezza dei dialoghi, la precisione e la leggerezza della regia trovavano una solida essenzialità. La seconda parte invece affonda nel melò: Toku racconta la sua malattia e la sua vita. (E giustamente trova posto qui la polemica della regista sul trattamento inflitto ai malati di lebbra, con la chiusura dei lebbrosari ritardata in Giappone fino al 1996.) Il tema del rapporto tra una madre che non è mai diventata tale e un figlio che non ha fatto in tempo ad essere figlio, familiare alla poetica della regista, un po’ arranca, e il personaggio di Wakama che da testimone vuole farsi protagonista è incerto. I tre restano un po’ prigionieri dei loro ruoli-funzione, dell’incarnazione delle età dell’uomo: giovinezza, maturità, vecchiaia. Faticano talvolta a esprimere congiuntamente simbologia e consistenza drammatica.
Sentaro, offrendo il lavoro a Toku, non solo si riconcilia con il lavoro odiato, eseguito solo per rimborsare un debito, ma trova un balsamo per curare vecchie ferite, per proseguire un dialogo interrotto con la madre. E Toku, così pudica nel mostrare i propri sentimenti, incontra in Sentaro il figlio tanto desiderato e che le fu negato con l’imposizione dell’aborto. A Sentaro e Wakana sarà proprio la signora Toku a far comprendere l’unicità e l’irripetibilità di ogni momento, anche il più sconfortante. Ma il rischio della banalità e del luogo comune è in agguato. <<I tre protagonisti si rendono conto che nessuno può vivere da solo – dice la regista – ciascuno di noi vive qualche esperienza di fallimento nella vita, a volte questi fallimenti possono imprimere una svolta drammatica alla nostra esistenza, ma anche in questo caso ognuno di noi possiede sempre la forza per continuare a vivere in qualunque condizione. E’ una forza innata della natura>>. Ben detto, ma sullo schermo le parole arrivano con qualche fatica. Oltre la solitudine e la sventura, Kawase indica la possibilità di guardare in alto, al di sopra dei ciliegi, dove gli affetti, la malattia e anche la morte sembrano rientrare nel ciclo dell’esistenza che si rinnova continuamente. Come la natura con l’alternarsi delle stagioni.
Trama
I tre personaggi del film sono persone sole che per varie ragioni non sono integrate nella società: Sentaro, un cuoco ferito dalla vita, l’anziana e menomata Toku, la giovane Wakana che non comunica con la famiglia. Appartenenti a generazioni diverse, i tre si incontrano nel piccolo negozio di dorayaki, dolcetti tradizionali, dove sotto le sapienti mani di Toku, l’attività comincia a prosperare, ma i pregiudizi dei clienti metteranno in crisi questa piccola comunità. Ricevendo il sapere di Toku, che ha vissuto molto di più e fatto molte più esperienze, Sentaro e Wakana, acquistano un loro modo di credere in se stessi e la capacità di compiere un piccolo passo in avanti nella vita.
di Giorgio Rinaldi