La prima neve

Fin dagli esordi documentaristici nel lontano 1998 (non ostante fosse allora giovanissimo) il veneziano Andrea Segre aveva fatto capire di essere un attento osservatore di un certo tipo di realtà marginale ed emarginata – sia quella della diversità inserita in contesti in cui xenofobia e razzismo rendono impossibile il superamento del rifiuto vanificando ogni sforzo di integrazione che quella forse ancora più dolente dell’immigrazione clandestina e delle sue conseguenze esiziali -, indagata con scrupolo analitico e raccontata sempre con la giusta distanza di chi vuole denunciare senza però mai degenerare nel cattivo gusto della retorica buonista.
Dopo aver esordito con la rievocazione della tragica odissea del popolo Rom in giro per l’Europa ne Lo sterminio dei popoli zingari, negli anni successivi Segre si è dedicato a indagare il ruolo della marginalità di etnie e popoli diversamente dimenticati o esclusi (Ka Drita?, A metà. Storie tra Italia e Albania, L’Albania è donna sul mondo albanese, Dio era un musicista sulle popolazioni africane), dedicandosi poi a diversi progetti di cooperazione internazionale, il cui minimo comune denominatore tematico è sempre stato l’interesse per i temi delle migrazioni verso l’Europa dalle terre del sottosviluppo centrafricano e non.
Da questi progetti sono nati interessanti documentari quali A Sud di Lampedusa (girato nel Sahara nigeriano nel 2006) che ripercorreva per la prima volta i penosi viaggi dei migranti arrestati in Libia e quindi rispediti verso la frontiera nigeriana. O ancora, due anni dopo, Come un uomo sulla terra, nel quale Segre dava voce ai migranti africani vittime e al contempo testimoni involontari delle brutali modalità adottate dalla Libia a partire dal 2003 per tenere sotto controllo i flussi migratori su richiesta di Italia ed Europa.
Nel 2010, con Il sangue verde, la sua attenzione si era invece spostata sulle nostre latitudini per documentare in immagini le manifestazioni di protesta attuate dagli immigrati africani impiegati nella raccolta degli agrumi nei campi calabresi di Rosarno, in reazione al ferimento di alcuni connazionali a opera di gente del posto. Denunciando con coraggio e senza troppi peli sulla lingua il degrado delle condizioni in cui quei lavoratori erano ridotti ma anche la ferocia brutale del caporalato impegnato nell’organizzazione del lavoro, Segre aveva attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali sulla Calabria e sull’atteggiamento tenuto nei confronti dei rivoltosi sia dalle istituzioni che dagli abitanti della zona.
L’anno scorso, insieme a Stefano Liberti, Segre era invece tornato a occuparsi della questione dell’immigrazione africana e della Libia nello straziante documentario Mare chiuso, nel quale venivano raccolte le testimonianze di alcuni rifugiati nel campo UNHCR di Shousha, in Tunisia, per cercare di ricostruire quanto accaduto a più di duemila migranti africani che, tra il 2009 e il 2010, erano stati intercettati nelle acque del Mediterraneo e rispediti in Libia con violenze e soprusi assortiti da parte delle forze dell’ordine italiane a seguito degli accordi intercorsi nel frattempo tra il regime di Muhammar Gheddafi e il governo Berlusconi.
L’occhio attento e vigile di Segre si è però rivolto anche alla realtà italiana e a quella locale del “suo” Veneto e delle non poche problematiche sociali ed economiche che ne hanno agitato le acque increspate negli ultimi dieci anni. Da quest’altra direttrice creativa sono così nati documentari dedicati alla crociata ecologico-ambientale dei cittadini di un piccolo paese della bassa veneta impegnati a dare battaglia per opporsi al progetto di costruzione di una delle più grosse zincherie presenti sul territorio italiano (La mal’ombra, del 2007), alle micro realtà locali dei propri luoghi d’origine (Pescatori a Chioggia del 2001 e Marghera Canale Nord del 2003), alle angosce dei giovani circa l’assenza di un futuro possibile in tempi di crisi nera (L’amorosa visione, del 2007), ai problemi dell’Italia dei giorni nostri e alle sue mancanze di vario genere (Checosamanca, del 2006), nonché ai disagi urbanistici e umani delle zone degradate di certa periferia nostrana (Magari le cose cambiano, girato nel 2009).
Con un curriculum di questo tipo non aveva quindi stupito nessuno che anche il suo lungometraggio d’esordio – il sorprendente Io sono Li del 2011 ambientato a Chioggia e incentrato sull’amore quasi impossibile tra una barista cinese e un pescatore serbo residente in zona da trent’anni – avesse per tema centrale la difficoltà dell’integrazione da parte di due “diversi” all’interno di una piccola comunità diffidente e inconsciamente xenofoba nella sua anima più profonda.
E quindi non stupisce che anche La prima neve, sua opera seconda da giovedì scorso nelle sale passata a Venezia nella sezione “Orizzonti”, tratti ancora una volta un argomento che, pur se indirettamente, ha a che fare con la sofferenza legata a uno dei tanti viaggi della speranza, ma anche con il rapporto che si instaura tra una specifica zona del paese (una valle montana del Trentino) e i membri della microscopica comunità che vi abitano.
Siamo infatti nel piccolo paesino di montagna di Pergine Valsugana ai piedi della Val de Mocheni, quando i boschi stanno iniziando a ingiallire e l’autunno annuncia l’arrivo della prima neve (che però ci metterà comunque un’ora e mezza a cadere). Dani è un immigrato arrivato in Italia dal Togo attraverso l’inferno dell’odissea di Lampedusa (una delle tante su uno dei tanti, troppi barconi della vergogna). A prendersi cura di lui è Elisa, che nella zona fa parte dell’organizzazione impegnata a fornire assistenza agli immigrati e ai rifugiati da terre instabili. È grazie a lei che Dani ha la possibilità di lavorare dal suocero Pietro, montanaro d’altri tempi e pochissime parole che alterna la produzione di miele alla professione di falegname, entrando così a far parte della micro comunità sparpagliata sulle montagne.
Ma l’asse portante della vicenda non è la storia personale di Dani e alla sua odissea di migrante della disperazione (si accenna solo di sfuggita a documenti e a permessi di soggiorno vari), che di per sé sarebbe comunque più che tragica e meritevole di stare al centro della scena. Non fosse altro perché l’uomo, oltre a portarsi nel cuore e nella mente le piaghe dell’esilio e dell’emigrazione forzata, ha con sé una neonata che non riesce ad amare come dovrebbe perché gli ricorda troppo la moglie, morta durante il tragico tragitto per mare.
Il vero centro narrativo della vicenda raccontata da Segre è, come in molto del suo cinema, il rapporto tra gli esseri umani e la natura circostante (in questo caso i boschi quasi incontaminati in cui tutti i personaggi scorrazzano a vario titolo), sul quale però gettano lunghe ombre minacciose due conflitti irrisolti che minano dalle fondamenta l’apparente serenità idilliaca della comunità montana: se infatti Dani deve fare i conti con l’elaborazione di un lutto atroce come quello della moglie e allo stesso tempo con la sua incapacità di dare adeguato affetto alla neonata Fatou, anche Michele – figlio di Elisa e nipote di Pietro – ha il suo bel daffare con un padre scomparso che ha lasciato in lui un senso inappagato di privazione e di assenza dai quali riesce solo a estrarre una rabbia cieca nei confronti della madre, da lui ritenuta responsabile dell’incidente in cui ha perso il padre.
Inevitabile quindi che i due destini di deprivazione, pur avendo storie diversissime e appartenendo a individui lontanissimi per anagrafe ed esperienze di vita vissuta, finiscano col convergere in un percorso comune fatto di tacite comprensioni e progressive compenetrazioni nella natura quasi magica e fiabesca da cui sono amorevolmente circondati (e che Luca Bigazzi fotografa con la consueta ispirazione). La prima neve del titolo è quindi la metafora atmosferica di un possibile ri-inizio da zero per tutti: cadendo e coprendo di un manto candido ogni cosa, rappresenta la tabula rasa che la natura regala offrendo ai personaggi del dramma familiare in corso di rappresentazione la possibilità di riscrivere da campo le pagine del proprio destino.
Secco ed essenziale come può essere il cinema di un documentarista capace di passare al lungometraggio di finzione senza rinunciare in quasi nulla al bagaglio estetico e creativo con cui non ha mai smesso di raccontare la realtà denunciandone le storture, La prima neve è un seguito logico e consequenziale del sorprendente esordio di Io sono Li: all’insofferenza xenofoba e razzista della piccola comunità marina di Chioggia nei confronti dei nuovi arrivati e della loro diversità cui viene negato il diritto all’integrazione possibile, risponde qui un moto di apertura che è di fatto l’esatto contrario. La piccola comunità alpina accoglie con silenzioso affetto il diverso accettandolo come un proprio membro non tanto perché sia più pronta e aperta ad accettare la differenza di pelle, cultura, storia e tradizioni, quanto piuttosto perché l’uomo nero arrivato sulle montagne porta con sé un carico di dolore (non solo legato all’odissea dell’emigrazione) che si coniuga alla perfezione con l’atmosfera di greve oppressione che grava sulla casa in cui viene affettuosamente accolto.
Trama
Sopravvissuto a uno dei tanti viaggi della disperazione dall’Africa a Lampedusa (durante il quale ha però perduto la moglie rimanendo da solo con la figlia neonata), il togolese Dani viene accolto con affetto e inaspettata benevolenza da una piccola comunità montana del Trentino. Ma la permanenza presso una famiglia che vive isolata nei boschi gli farà scoprire che anche da quelle parti non mancano né la sofferenza né il dolore per perdite lancinanti come quella che ha segnato la sua vita.
di Redazione