Il tuo ultimo sguardo
Dal giorno in cui venne proiettato in concorso a Cannes 2016 e fu accolto con schiamazzi derisori vagamente incivili, per questo quinto film di Sean Penn da regista ci sono stati in giro per il mondo solo cori unanimi di disapprovazione arrivati a punte estreme di sbeffeggiamento mediatico e stroncature tanto feroci da entrare a pieno diritto nel Guinness dei primati per cattiveria aggressiva.
Adesso che il film approda nelle sale italiane e lo si può (ri)vedere a bocce ferme senza che la virulenza festivaliera ne condizioni la valutazione oggettiva, risulta però un’impresa titanica il voler cercare di salvarlo anche solo in parte. Non fosse altro che per il curriculum inattaccabile del suo regista, capace da attore di scegliere sempre film adeguati al proprio profilo pubblico di intellettuale impegnato in cause nobili e poi — una volta passato dietro la macchina da presa — abilissimo nel condensare questo mix di alto impatto in lungometraggi sempre informati all’engagement culturale e alla proposizione di tematiche di urgente richiamo civile.
Gli ingredienti per convertire le buone intenzioni di partenza nella classica ciambella col buco c’erano davvero tutti: un regista col pedigree culturale giusto e una storia di attivismo radical alle spalle a fare da garanzia, un tema scottante come l’emergenza umanitaria in Africa e gli infiniti corollari di orrore/dolore che ne accompagnano sempre l’epifania narrativa, un budget non da poco per un film nato come «indipendente», esterni girati nei luoghi reali (Liberia, Suda, Sudafrica) in cui agiscono i veri operatori umanitari impegnati in prima linea, la fotografia di quel Barry Ackroyd per anni operatore preferito di Ken Loach e soprattutto due star da Oscar del calibro di Charlize Theron e Javier Bardem cui affidare la tormentata storia d’amore da gestire come importante sotto trama all’interno del Grande Tema del post-colonialismo e dei suoi disastri.
Questo a livello di pure intenzioni. Ciò che però si vede nelle due ore e dieci di pellicola è purtroppo tutt’altro. Spinto dall’urgenza di voler denunciare urlando la tragedia dimenticata di un paese — la Liberia — dilaniato da due guerre civili a catena e dalla dittatura sanguinaria di Charles Taylor, Penn si è fatto prendere la mano convertendo il proprio film in un breviario dell’orrore nel quale non manca quasi nulla del catalogo di nefandezze che da troppi decenni è il sussidiario di storia del continente nero. Dalla pulizia etnica ai massacri tribali, dai campi profughi alle epidemie, dalle carestie ai bambini soldato, dagli stupri di gruppo agli ospedali da campo, dai volontari delle ONG ai medici in trincea. Il tutto annaffiato da ettolitri di sangue finto che scorre come vinaccio in un banchetto da peplum medievale e dialoghi imbarazzanti pronunciati come se dovessero essere incisi nella pietra a futura memoria dei popoli.
Se poi tutto questo non bastasse, se cioè la denuncia della cattiva coscienza occidentale non fosse stata affidata all’orgia stomachevole di immagini da pugno nello stomaco destinate però a ottenere l’effetto contrario a quello previsto, il regista di Into the Wild ha dovuto fare i conti con le due superstar scritturate. Per giustificarne la presenza e i robustissimi cachet, la sceneggiatrice Erin Dignam ha cucito loro addosso un’improbabile love story tutta melassa virata al rosa il cui stucchevole diagramma di tira e molla dovuti alle fibrillazioni del cuore ma soprattutto alle diverse concezioni dell’intervento umanitario viene presentato come un correlativo oggettivo delle guerre civili che fanno da sfondo orrorifico alle battaglie di coppia. Il che è un azzardo inaccettabile oltre che un affronto etico non da poco.
Col risultato di creare uno iato insanabile tra la realtà spaventosa che si vorrebbe denunciare con piglio quasi documentaristico e l’urgenza di incastonare i toni del melodramma della storia d’amore nel tessuto di una vicenda che gronda orrore da tutti i pori e che non può non stridere con la bellezza statuaria dell’ex modella sudafricana sempre fresca reduce da sedute di make-up (anche quando si aggira tra cumuli di cadaveri) e col fascino tenebroso da macho sciupafemmine che l’attore madrileno non riesce a scrollarsi di dosso nemmeno nei panni del dottore piacione che qui gli tocca interpretare.
Il tutto arricchito da stucchevoli sfondi da cartolina che sembrano citazioni involontarie de La mia Africa e una colonna sonora che accompagna con note di turgida retorica i pistolotti umanitari affidati alla voce fuori campo di Charlize Theron impegnata con fastidiosa insistenza da scolaretta saccente a imporre all’incolpevole spettatore le sue tirate risentite sulla cattiva coscienza dell’Occidente. Mentre su tutto aleggia un vago sapore di lirismo alla Terence Malick che Sean Penn (attore in due suoi film di culto quali La sottile linea rossa e The tree of life) sparge qua e là non appena la macelleria visuale gli lascia qualche fotogramma libero da impegnare con stacchi leggeri.
Se si vuol fare un film su temi tanto scottanti come quello scelto da Penn a rischio costante di scivoloni nella retorica, si dovrebbe fare tutto il possibile per evitare il ridicolo involontario. E quindi perché far girare Charlize Theron con addosso una t-shirt attillatissima modello «vedo/non vedo» in una tendopoli dove la notte le rifugiate ospiti non hanno il coraggio di andare alle latrine per paura di essere violentate? Perché cucire addosso a Bardem i panni di un chirurgo-demiurgo che a ogni piè sospinto fa miracoli nemmeno fosse Barnard in una clinica modello (vedi il caso di un cesareo su una donna massacrata di botte che termina col salvataggio di madre e nascituro), alternando sorrisoni da gigione sgamato a frequenti pianti sui mali del mondo?
Sono questi i film che Hollywood al suo peggio confeziona e produce per lavarsi la coscienza e mostrare al mondo di cosa sia capace quando vuole trattare temi da «massimi sistemi» e convincere anche i suoi più agguerriti detrattori di come la più famigerata delle industrie del cinema sia in grado di assoggettare le ragioni del botteghino a quelle dell’impegno civile. Spiace però che a firmare questo pasticciaccio brutto in cui il kitsch involontario da fumettone esotico va a braccetto col melodramma ricattatorio sia però un attore-regista che le cause umanitarie le ha sempre sposate e sostenute davvero.
Un uomo di cinema di razza che in futuro farà davvero fatica ad abradere dal proprio curriculum da regista un polpettone in cui gli orrori della Storia di un continente vengono asserviti alle esigenze del melodramma rosa e che potrebbe forse essere digeribile soltanto come evento di apertura a una cena di gala dell’UNICEF.
Trama
Coraggioso «medico senza frontiere» spagnolo, il dottor Miguel Leon ha fatto del suo lavoro una missione, mettendosi al servizio delle vittime dei conflitti in vari paesi africani. Mentre in Liberia infuria la guerra civile, Leon incontra la dottoressa Petersen, direttrice di una ONG internazionale che fornisce assistenza medica ai paesi in via di sviluppo. Sullo sfondo degli orrori assortiti che insanguinano il paese, tra i due nascerà un’appassionata storia d’amore, complicata però non solo dalle idee diametralmente opposte sulle modalità dell’intervento umanitario, ma anche dalle improbe condizioni ambientali in cui la loro love story deve trovare la forza per sopravvivere.
di Guido Reverdito