Il quadro rubato

La recensione di Il quadro rubato, di Pascal Bonitzer, a cura di Guido Reverdito.

Dietro questa garbata commedia sospesa tra il ritratto d’ambiente e qualche pennellata thriller c’è il classico fatto realmente avvenuto. Nel 2004 André Masson, notissimo esperto d’arte che lavora come banditore di una celebre casa d’aste, riceve una lettera anonima in cui gli viene comunicato il ritrovamento de “I girasoli”, un dipinto di Egon Schiele sparito nel 1939 nell’àmbito delle spoliazioni naziste figlie della delirante caccia alla cosiddetta “arte degenerata” voluta in prima persona da Hitler, forse a parziale rivalsa del proprio passato di pittore fallito.

Il capolavoro si trova nell’abitazione di un giovane operaio chimico che abita nella sonnacchiosa Mulhouse, nell’Est della Francia ai confini tra Svizzera e Germania. Dopo iniziali e motivati scetticismi, lo spocchioso Masson si reca malvolentieri sul posto per verificare di persona, e si trova di fronte a una verità sconcertante: l’opera non è un’abile contraffazione – come lui e le sue più strette collaboratrici (ovvero la ex moglie e una stagista eccentrica e brillante) credono –, ma si tratta effettivamente del capolavoro perduto del genio austriaco morto a soli 28 anni nei vortici dell’influenza spagnola che decimò mezza Europa alla fine della II Guerra Mondiale.

Una volta accertata l’autenticità della tela e quando negli occhi del protagonista e di parte della famiglia che si è trovata in casa il tesoro (ma non l’operaio ventenne che ha scritto la lettera iniziale e che alla fine sarà il solo a mostrare di essere portatore sano di solidi valori morali) si accende la fregola del lucro a nove zeri, la sceneggiatura vira verso il thriller: a farsi avanti sono infatti gli eredi di chi all’origine aveva in casa il dipinto e con loro bussano alla porta la Storia e i suoi orrori sepolti in un colpevole mix di oblio e rimozione. Da quel momento in poi il terzetto deve fare squadra, dribblando inganni e minacce non solo per salvaguardare il patrimonio artistico rappresentato dalla tela ritrovata, ma anche per far luce su un torbido passato che torna in superficie per inquinare il presente e mettere a rischio carriere e vite private.

Di certo non mancano film con al centro vicende rocambolesche legate a quadri più o meno famosi. Ma l’aspetto forse più interessante de Il quadro rubato sta proprio nel ribaltamento di prospettive: se è indubbio che la tela di Schiele stia al centro della vicenda rischiarando gli interni (prima quelli cupi da classe operaia dei proprietari casuali e poi quelli scintillanti e glamour delle case d’aste) con la luce tenue dei suoi colori, è ugualmente innegabile che uno dei nuclei tematici forti del film sia quello dell’arte e della sua fruizione da parte dell’universo del lusso. Ovvero quella élite rarefatta di privilegiati in grado di spendere milioni per accaparrarsi oggetti da ammirare in maniera esclusiva all’interno delle proprie mura domestiche, godendo del privilegio dell’unicità di quella vista da cui tutto il resto del mondo risulta escluso per ragioni di censo. Diretta da un ex-critico dei Cahiers du cinéma collaboratore a più riprese di Jacques Rivette in qualità di sceneggiatore e ormai molto avanti negli anni, questa commedia morale colorata di giallo ha appunto l’ambizione non troppo celata di raccontare il marcio che si annida dietro le quinte del mondo solo all’apparenza tutto lustrini dell’arte vista non solo come veicolo strumentale di lucro, ma soprattutto come autocelebrazione estetica del privilegio di casta. E insieme riproporre l’eterno gioco dialettico tra autenticità e contraffazione, tra reale e fittizio, così come tra menzogna (quella figlia del losco passato che il quadro si trascina dietro) e verità (quella invece di chi alla fine in bocca a caval donato ci vuol vedere eccome, opponendo l’etica di solidi valori morali alle lusinghe di un facile profitto legato alla monetizzazione del bello).


di Guido Reverdito
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