Enzo

La recensione di Enzo, di Robin Campillo, a cura di Marco Lombardi.

Mancano al cinema contemporaneo il rigore espressivo e la complessa lucidità di Lorent Cantet, prematuramente scomparso lo scorso anno. Quando la Quinzane des Cinéastes ha annunciato l’uscita del film a cui stava lavorando prima di lasciarci, Enzo, tutti i cinéphile hanno fatto festa, per poi – qui a Cannes – rimanere delusi: il film non è un film alla Laurent Cantet, anche se la sua firma compare – insieme a quella dell’amico Robin Campillo – sia a livello di regia, sia di sceneggiatura, che in effetti sospettiamo fortemente Campillo abbia modificato.

Il film parte molto bene, tratteggiando come sempre uno dei classici adolescenti alla Cantet: innocenti, confusi, coraggiosi e sfaccettati. Enzo, che ha 16 anni, lavora in un cantiere edile, ed è piuttosto imbranato: il capo, accompagnandolo a casa con l’intento di licenziarlo, scopre che Enzo vive in una villa con piscina, e che i genitori (peraltro presenti, nella sua vita) hanno dovuto accettare la sua scelta di non voler più imparare, cioè di studiare, in luogo del bisogno di fare cose che restano, ad esempio tirar su mattoni, e case.

Nel cantiere conosce Vlad, un ragazzo ucraino scappato dalla guerra: Vlad lo protegge, per questo Enzo prova per lui un sentimento di fascinazione via via crescente attraverso il quale comincia ad aprirsi al mondo. È questo il momento più alto del film, quello in cui la confusione vitale di Enzo si fa specchio della più generale confusione del mondo contemporaneo. Fra i tanti elementi di “dubbio” era lecita la ricerca della propria identità sessuale, e l’opzione dell’omosessualita come metafora di disobbedienza al mondo, ma poi il film si trasforma in solo quello, perdendo per strada tanti sani dubbi, e implodendo nel semplice desiderio di Vlad, tanto fisico quanto romantico. Per questo, teniamoci stretto Laurent Cantet nel meraviglioso ricordo di Risorse umane, e di A tempo pieno, e de La classe


di Marco Lombardi
Condividi

di Marco Lombardi
Condividi