Final Destination – Bloodlines

La recensione di Final Destination - Bloodlines, di Zach Lipovsky e Adam B. Stein, a cura di Gianlorenzo Franzì.

25 anni e 6 film sono davvero tanti per un franchise che nasce come slasher young adult con un gruppo di ragazzi che combatte contro la Morte (…): ma a dispetto di ogni predisposizione o aspettativa, ecco che il sesto film rielabora tutte le suggestioni precedenti e si presenta come una riflessione sul genere, divertita e consapevole senza mai essere autoreferenziale, nonché come coraggiosa predizione nichilista e pop insieme, cosa insospettabile oggi nel cinema d’intrattenimento.

Questo perché, prima di tutto, Final Destination – Bloodlines capovolge lo spirito della saga, entrando in nuovi territori: ovvero, spostandosi dal tono serissimo -a volte fin troppo- che indagava l’inutilità di ogni fede che cerca di spiegare o abbattere (seppur figurativamente) la Morte, alla consapevolezza della “insostenibile leggerezza” di un cinema di pancia, esplosivo. Un cinema che mostra e anzi sbatte in faccia al pubblico con potenza inaspettata quella violenza liberatoria, finzionale, strafottente, che abbiamo sempre voluto e che sempre cerchiamo.

L’intelligenza dell’opera/operazione sta tutta qui: perché è proprio nel suo inseguire un mood passato che Bloodlines risulta modernissimo.

Anche grazie ad una scrittura solidissima da qualsiasi punto d’osservazione ci si ponga, con tempi velocissimi eppure dilatati fino a quel -lunghissimo- prologo che in realtà è una premonizione al contrario (cioè spinta indietro nel tempo), tutto teso ad un fluire vertiginoso che non rinuncia ad un divertimento post-moderno: se morte e violenza ci devono essere, almeno che siano così su di giri da risultare ai massimi livelli. O anche nel suo voler dare contorni lineari ad una narrazione che negli anni è stata ovviamente sbrindellata, ponendo al centro un personaggio laterale, ovvero il William Bludworth di Tony Todd, nel tentativo di dare coerenza alle storie di tutti i film.

Un’operazione nichilista, si diceva sopra, e che in questo si pone al fianco del capolavoro di Damien Leone Terrifier 3 di qualche mese prima: solo che qua Zach Lipovsky e Adam Stein sono più ortodossi restando con i piedi piantati nel genere, e ripetono sacralmente una formula da franchise pur se elevandola all’ennesima potenza. D’altronde, alla sceneggiatura c‘è una vecchia volpe come Jon Watts, che dopo l’ottima esperienza con la trilogia dello Spider-Man con Tom Holland mstra di saper strizzare l’occhio allo spettatore mentre gli tira via la sedia dal sedere: c’è sempre, in sottofondo, quella piacevole sgradevolezza che si fa fieramente amoralità, nel momento in cui a chi tocca, tocca, buoni o cattivi.

Senza dire che, a guardar bene, sotto il purissimo piacere escapista di un massacro voyeuristico -svolto in maniera limpida e tecnicamente perfetta-, c’è anche un’intelaiatura più grande che regge lo spettacolo del sangue.

Le complesse trame della Morte in Bloodlines partono da un penny; e per sfuggire alle regole della Morte servono astuzia e scaltrezza per stare sempre un passo avanti a lei. È qui che se si unisce tutto si evidenzia, in terra americana, un chiarissimo trionfo dei meccanismi del capitalismo dove causa ed effetto sono alla base di un guadagno per sé. È proprio nel dna dell’americano medio: l’orizzonte degli eventi, nonché l’etica personale, prendono le misure sul guadagno, che diventa il destino di tutti.

La furbizia di Final Destination è di lasciare il sottotesto vagamente sullo sfondo senza fargli prendere la scena, rimanendo un divertissement divertente e dai ritmi perfetti. Di gran lunga, il migliore della serie, insomma.


di Gianlorenzo Franzì
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