Eden

La recensione di Eden, di Ron Howard, a cura di Alessandro Amato.

All’inizio degli anni ’30 la famiglia Wittmer – composta da Heinz, la sua seconda moglie Margret e il figlio di primo letto dell’uomo – raggiunge l’isola sudamericana di Floreana alla ricerca del medico berlinese Friedrich Ritter e della sua amante Dore Strauch, gli “Adamo ed Eva delle Galápagos” secondo i maligni tabloid tedeschi, stabilitisi lì per rifuggire la società civile. I due nuclei vivono così in delicata armonia per qualche tempo finché sulla spiaggia giunge l’eccentrica Baronessa Eloise Wehrborn de Wagner-Bosquet con gli accompagnatori Robert Philippson e Rudolf Lorenz. L’ambiziosa donna è intenzionata a costruire un resort di lusso e niente sembra poterla fermare se non che, improvvisamente, il 27 marzo del 1934, la baronessa e Philippson scompaiono nel nulla. Questa è l’incredibile storia vera che ha ispirato Ron Howard per la realizzazione di Eden, film d’apertura del 42° Torino Film Festival, con protagonista un eccezionale parterre di interpreti quali Jude Law, Vanessa Kirby, Daniel Brühl (già in Rush), Sydney Sweeney e Ana de Armas.

All’apparenza il regista statunitense, che tutti conosciamo per la  magniloquenza di Apollo 13 ma anche per l’asciuttezza di Frost/Nixon – Il duello, qui gioca una carta espressivamente diversa dal solito. Eden è infatti forse più vicino a certo eccesso proprio dei film tratti da Dan Brown oppure all’epica letteraria di Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick. Il tutto tenuto insieme dalla volontà di trovare un equilibrio fra cronaca e racconto come nel recente Tredici vite. Howard è però anche colui che ha firmato EdTV e Il Grinch, lavori meno prestigiosi e in diverso grado grotteschi, il cui ricordo stupirebbe forse meno chi afferma che il tono sopra le righe di quest’ultima fatica giunge senza precedenti. Eden è sì un film dallo schema narrativo canonico, ma colpisce proprio per l’inattesa componente bizzarra, polanskianamente satirica e a tratti tragicomica di alcune scelte di scrittura ma soprattutto di messa in scena. In particolare da quando i tre gruppi umani cominciano il loro gioco al massacro per il controllo di un piccolo pezzo di terra in mezzo all’oceano Pacifico.

Da quel momento persino il corpo nudo di Jude Law appare meno piacevole del previsto, in quanto ci si rende conto della sua decadenza, ancora prima di scoprire che il dottor Ritter si è strappato tutti i denti per evitare un’infezione e deve munirsi di una inestetica dentiera metallica per masticare qualsiasi pietanza. La florida Sweeney ci si presenta dimessa e trasandata, all’estremo opposto di una De Armas addirittura troppo sensuale per non suscitare qualche lecito sospetto. Fin qui l’operazione ha un che di interessante, proprio per questa sua volontà di disvelamento degli usuali vezzi divistici e nell’ottica di una ricognizione socio-antropologica di un’umanità abbruttita e troppo vile per aspirare a riabitare il Paradiso Terrestre. Eden di Ron Howard però non convince fino in fondo per una certa tendenza a semplificare le dinamiche relazionali di personaggi archetipici con i quali è davvero difficile empatizzare. Su tutti i citati spicca proprio la baronessa, e non certo per colpa dell’attrice e modella cubana ma perché Eloise rappresenta l’ennesima femme fatale sognata e riprodotta da uno sguardo maschile conservatore e un po’ puritano, agitato dall’urgenza di liberarsi dallo spettro del peccato veniale allo scopo di far trionfare i valori tradizionali, che alla fine si identificano nella famiglia Wittmer uscita indenne e fortificata dalle innumerevoli vicissitudini.


di Alessandro Amato
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