Il corpo
La recensione di Il corpo, di Vincenzo Alfieri, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Pure se con un pugno di opere alle spalle, Vincenzo Alfieri ha mostrato subito una voce personalissima come regista: il suo Il Corpo -presentato in anteprima al TFF- lo dimostra ancora una volta, perché anche se in origine c’è un misconosciuto film spagnolo (El Cuerpo, del 2012, di Isaac Ezban) il suo quarto film lo dirige con polso fermo, risistemando alcuni elementi dell’originale per ricomporre alla fine una ragnatela di trame e sottotrame che mirano a costruire un complesso mosaico affascinante e a tratti vertiginoso.
Il Corpo, thriller a scatole cinesi con apprezzabile sorpresa finale un po’ à la Shyamalan, piace e affascina soprattutto per il suo presentarsi fieramente come un film di genere, che non cerca lo sconfinamento nella visione ma utilizza anche tutti gli archetipi del caso riuscendo a farli combaciare alla perfezione.
E visto che si tratta di un giallo, la precisione chirurgica con cui si deve intessere la trama è essenziale: Alfieri lo sa bene, ma sa anche plasmare le idee alla sua idea di cinema perché la sua filmografia, ristrettissima ma altamente variegata (I Peggiori è uno sguardo obliquo e originale sui cinecomics; Gli Uomini d’Oro è una preziosa fusione tra i ladri dell’âge d’or del cinema italiano e l’heist movie; Ai Confini del Male una lucida e cupa incursione nel thriller psicologico), dimostra la sua voglia e poi la capacità di districarsi negli ambienti, di saper trovare i volti giusti, di poter dosare il ritmo perfetto.
Il Corpo scivola con mood oleoso e insinuante sui suoi interpreti cablati al millesimo, e in questo si sente il lavoro di Giuseppe Stasi, già firma “di genere” per l’atipica e riuscita serie The Bad Guy: pure il quasi esordiente Andrea Di Luigi trova il suo tempo, anche se a strabordare è la “solita” Claudia Gerini, che passa con iperumana disinvoltura da un ruolo all’altro, sempre riuscendo a bucare lo schermo; e c’è da sottolineare anche la prova di Giuseppe Battiston con un personaggio difficilissimo e a forte rischio scivolone ma che porta a casa senza problemi, probabilmente uno dei ruoli migliori della sua carriera. Tutto quello che ne esce fuori èun film di suggestioni, di contesti, di dettagli, che fa scontrare lo schema narrativo -necessariamente- schematico e razionale con una messa in scena rarefatta e destrutturata -Alfieri e Stasi tengono ferma l’unità di tempo, tutto si svolge in una notte, ma svicolano con flashback e innesti.

di Gianlorenzo Franzì