La recensione di A Different Man, di Aaron Schimberg, a cura di Francesco Parrino
La recensione di A Different Man, di Aaron Schimberg, a cura di Francesco Parrino.

L’aspirante attore Edward (Sebastian Stan) è un uomo affetto da neurofibrosi. Infatuato della vicina di casa, la drammaturga in erba Ingrid (Renate Reinsve), infelice e incapace di mantenere il proprio equilibrio, decide di sottoporsi a una radicale procedura medica sperimentale per trasformare drasticamente il suo aspetto in modo da essere finalmente uguale agli altri. Cambia nome, diventa Guy e tutto sembra procedere al meglio finché nella sua vita non irrompe Oswald (Adam Pearson). A quel punto il suo nuovo volto da sogno si trasforma rapidamente in un incubo che lo travolge in una spirale di ossessione e follia. Presentato in anteprima mondiale alla Berlinale 74 e al cinema dal 20 marzo con Lucky Red e Universal Pictures, ecco A Different Man, la terza regia di Aaron Schimberg. Un film chiacchierato, attesissimo da quasi un anno, non fosse altro per la magistrale prova d’attore di Stan.
Svestiti soltanto per un attimo i panni di Bucky Barnes/Il Soldato d’Inverno del Marvel Cinematic Universe, infatti, Stan si rivela interprete consumato dalla recitazione fisica che nei panni del goffo, insicuro e problematico Edward vive di spalle ricurve, sguardo in basso, di un’andatura sconnessa e di una voce caratteriale monocorde che va infine ad esplodere in straordinarie fiammate emotive. Un lavoro artistico prezioso al sapor di consacrazione per Stan. Non a caso premiato alla Berlinale 74 con l’Orso d’Argento per la miglior interpretazione da protagonista e ai Golden Globes 2025 come Miglior attore in un film commedia o musicale, e che sarebbe stato perfino da candidatura agli Oscar se l’Academy non avesse scelto di premiare l’altrettanto incredibile lavoro compiuto in The Apprentice nei panni del giovane Donald Trump. A lui Schimberg affida un A Different Man come opera ironica e dissacrante percorsa di meta-linguaggi, simbolismi, momenti di puro e spaventoso body-horror e altri teneri e spontanei degni di un film della Nouvelle Vague, da cui far dischiudere un fragile cuore esistenziale di carattere universale.
Oltre le stranianti immagini sgranate, le zoomate ora morbide ora decise con cui tenere il ritmo del momento e la colonna sonora d’impatto, A Different Man è soprattutto un grande film sul volere del caso e sull’ironia della vita. E su come a volte la differenza – nella vita – la faccia proprio il giusto approccio. Se subire passivamente gli eventi o se reagire agli stessi in modo attivo. Ma è anche una riflessione sulle ipocrisie dello show-business, sul potere taumaturgico dell’arte che reinventa la vita appropriandosene fino a prendersi più di qualche licenza poetica, e su come non sempre la bellezza esteriore è sinonimo di felicità. Può perfino essere la peggiore delle condanne se si è rotti dentro. Quindi, di riflesso, un’incisiva e feroce trattazione sulla dialettica tra immagine interiore e identità, sull’accettazione di sé nonostante malformazioni e il giudizio di sguardi indiscreti, e su come tutto ruoti intorno alle piccole cose di ogni giorno. Un film che sorprende e stupisce, A Different Man, che resta addosso a visione ultimata, ricordandoci ancora una volta del potere immaginifico del cinema nelle sue grandi narrazioni.

di Francesco Parrino