Neorealismo in note
Roberto Pugliese ci conduce tra le "note" del Neorealismo.

Esattamente trent’anni fa la casa discografica CAM, fondata nel 1960 dall’editore Giuseppe Campi e specializzata nella pubblicazione di musica per il cinema, ha prodotto un preziosissimo (oggi di difficile reperibilità) cofanetto di 2 cd, arricchito da un booklet particolareggiato in 3 lingue e da numerose illustrazioni, intitolato “Musica & Cinema – Neorealismo italiano”. Vasto programma, se vogliamo citare il generale De Gaulle. Che tuttavia il cofanetto onora, anche grazie ad un ricco apparato filologico-critico, che si avvale, oltre ad un’introduzione dello stesso Campi e ad una storia dell’etichetta a cura di Giuseppe Attolico, di un illuminante saggio sul neorealismo firmato da Carlo Lizzani e di un acuto, dettagliato profilo dei compositori protagonisti di questa stagione redatto da Paolo Ruggeri. Il documento discografico si incarica così di testimoniare per la prima volta in maniera sistematica e ragionata uno dei fenomeni più interessanti e in certo senso misteriosi verificatosi all’interno della pur ricca e variegata storia della musica per film. E lo fa – va sottolineato – anche grazie al paziente e imprescindibile lavoro di recupero, ricostruzione e riorchestrazione delle partiture originali (non facili da rintracciare e oltretutto caratterizzate sino a quel momento da una pressoché totale assenza di discografia) operato da Andrea Ridolfi, sensibile e sofisticato compositore e direttore d’orchestra, qui sul podio della duttile Orchestra Sinfonica di Sofia, noto soprattutto in televisione quale autore delle musiche per serie come “I casi di Teresa Battaglia”, “I bastardi di Pizzofalcone”, “Mina Settembre” e altre.
A questo punto però si impone un passo indietro per inquadrare l’argomento da una prospettiva più vasta.
Operando una generalizzazione forse eccessiva ma indispensabile per esigenze di sintesi, possiamo dire che dall’immediato secondo dopoguerra e per un periodo che si estende almeno a tutti gli anni Sessanta del Novecento, le cinematografie mondiali più note vengono investite, in tempi e modalità ovviamente differenti, da ondate di rinnovamento che coinvolgono e sconvolgono scrittura, soggetti, stili, linguaggi, recitazione, in una parola l’essenza stessa del mezzo cinematografico, la sua ragion d’essere.
Una delle “ondate” più note è – appunto – la “vague” francese, preceduta da quell’aggettivo “nouvelle” che tradotto in varie lingue o traslato in vari sinonimi dilagherà contemporaneamente o con tempistiche differite in tutto il mondo. Si chiamerà Nová vlna in Ungheria, Free cinema in Inghilterra, Cinema novo in Brasile, New American cinema negli USA, Scuola di Łódź in Polonia, Junger deutsche film in Germania, Cinema del disgelo nell’ex URSS… Altrove (Grecia, Spagna, Scandinavia) magari non assumerà denominazioni specifiche o altrettanto note ma questa evoluzione/rivoluzione avrà ovunque le medesime caratteristiche basilari, naturalmente declinate secondo le personalità dei vari autori e la storia dei paesi di appartenenza: una cesura netta con il (cinema del) passato e un profondo mutamento in tutte le componenti del linguaggio filmico., sino a sfiorare le tentazioni dell’avanguardia. Musica compresa.
Ed ecco che. ci avviciniamo al punto essenziale di queste riflessioni. Consapevoli del potenziale di comunicazione, del valore aggiunto e dell’impronta culturale che la musica per film contiene e trasmette, tutte queste “scuole” cinematografiche individuano appunto in questo elemento uno dei fattori principali di rinnovamento.
Valgano per tutti tre esempi. In Unione Sovietica tramonta l’era delle altisonanti, trionfalistiche e celebrative partiture di propaganda dell’epoca staliniana e dei loro autori, raggruppati nella potentissima Unione dei compositori dell’URSS fondata nel 1932 per volere di Stalin e sciolta solo nel ‘91 con la fine dell’era sovietica: un organismo presieduto per quasi mezzo secolo dal suo plenipotenziario Tichon Chrennikov e di cui avevano fatto parte negli anni più ferrei del regime musicisti rigorosamente fedeli all’ortodossia del realismo socialista come Dmitrij Kabalevskij, Aram Chačaturjan, Boris Afas’ev, Georgij Sviridov, oltre naturalmente all’immenso Dmitrij Šostakovič, figura la cui tormentata e conflittuale complessità eccedeva largamente i confini imposti da qualsiasi diktat. Dopo la morte del dittatore e la (parziale) svolta impressa da Chruščëv, si affacciano le opere di registi come Grigorij Čuchraj o Iosif Chejfic, e più tardi Andrej Tarkovskij, Alexandr Sokurov e Alexej German, e con il loro cinema personalità di compositori del tutto aliene dallo stile squillante, enfatico e devozionale dei predecessori, quali Mikhail Ziv o la pioniera Nadezhda Simonyan, mentre altre personalità del passato come Nikolai Kryukov cercano di adeguarsi ai tempi nuovi, e già si affacciano musicisti decisamente innovativi come Alfred Šnittke e Rodion Ščedrin e più oltre Eduard Artemyev e Andrei Sigle, compositori di riferimento rispettivamente di Tarkovskij e Sokurov.
Altro esempio lontano geograficamente e culturalmente ma altrettanto significativo viene dall’Inghilterra. Il movimento degli Angry Young Men o “giovani arrabbiati” nato negli anni ‘50 si propaga ben presto dalla letteratura e dal teatro al grande schermo, dando vita al “Free Cinema” di Tony Richardson, Lindsay Anderson, Karel Reisz, John Schlesinger, Richard Lester e il primo Losey, con storie di ribellione, trasgressione, diversità e riscatto esplicitamente politiche e protagonisti individuati fra le classi più popolari e reiette. Musicalmente ciò significa il superamento di una concezione descrittiva e aristocratica delle partiture, in buona parte motivata dalla presenza di compositori classici del Novecento, legati ancora ad un sinfonismo tardoromantico di matrice ottocentesca e prestati al cinema, quali William Walton o Ralph Vaughan-Williams ma anche Arthur Benjamin, Arnold Bax, Arthur Bliss, Constant Lambert, per lasciare il posto a musicisti di estrazione pop o jazzistica come John Dankworth e John Addison, o a personalità più eclettiche come Richard Rodney Bennett; senza contare che di lì a poco emergerà la figura più originale e persuasiva della musica per film inglese e non solo, dalla carriera lunga mezzo secolo, ossia quel John Barry che, venuto dal mondo della swinging London, diverrà poi il compositore di riferimento per la saga dell’agente segreto 007…
In Francia, dove fiorisce il più noto tra questi movimenti ossia la Nouvelle Vague, il discorso non cambia. L’archiviazione di quello che nouvellevaguisti e cahieristi chiameranno con un certo disprezzo “cinéma de papa” passa anche e in buona misura attraverso l’accantonamento di compositori che di quella stagione erano stati gli alfieri, all’insegna di un melodismo spesso “larmoyant” e di una immediata comunicatività, come Pierre Jansen o Joseph Kosma (celebre per il sodalizio con il poeta Jacques Prévert di “Les feuilles mortes”), senza dimenticare anche qui il coinvolgimento nel cinema di compositori storici del Novecento transalpino impegnati a reagire ai retaggi dell’impressionismo di Debussy o Ravel, fra cui citeremo alcuni appartenenti al celebre Gruppo dei Sei come Darius Milhaud, Francis Poulenc, Arthur Honegger e specialmente Georges Auric. Si fa così strada una nuova generazione di maestri che vede i suoi capiscuola in Georges Delerue, il compositore di riferimento di François Truffaut, Michel Legrand (di Jacques Demy e Agnès Varda, ma anche di Jean-Luc Godard) e più tardi in personalità di successo anche internazionale come Francis Lai o Philippe Sarde.
Altre cinematografie rivelano la medesima procedura di svecchiamento delle formule musicali pre o immediatamente postbelliche (basti citare il caso polacco, dove domina il profilo di Krzysztof Penderecki, massimo esponente dell’avanguardia e sfruttatissimo al cinema con cui peraltro ha collaborato direttamente non più di un paio di volte: ma dove si fanno strada anche figure decisive come Andrzej Korzyński e soprattutto Wojciech Kilar), ma quanto sin qui sommariamente esposto è sufficiente a far risaltare l’anomalia e l’eccezionalità del caso italiano, non a caso già sottolineata a suo tempo da due studiosi del calibro di Fernaldo Di Giammatteo, sul fronte filmologico, e Sergio Miceli, su quello musicologico.
Di tutti i fermenti di innovazione sopra ricordati il neorealismo, oltre ad essere oggettivamente il meno omologabile agli altri, è anche cronologicamente il primogenito nonché quello con la vita più breve. Se lo datiamo canonicamente (anche se l’argomento è tuttora oggetto di dibattito) al 1943 di “Ossessione” di Luchino Visconti la sua estensione non si protrae oltre la metà degli anni Cinquanta, secondo alcuni studiosi anche prima, e questo malgrado gli vengano impropriamente attribuiti anche numerosi titoli successivi.
Meno di un decennio dunque, ma sufficiente a rovesciare completamente le coordinate del cinema italiano uscito dal ventennio fascista e dalla guerra, in un ribaltamento prospettico che ha investito storie, personaggi, approccio estetico (fotogreafia, scenografia, montaggio), recitazione, in pratica tutti gli aspetti del linguaggio cinematografico. Tutti tranne uno. La musica.
Siamo negli anni in cui a questo elemento, che pure è spesso massicciamente se non invasivamente presente nel cinema italiano, non viene riconosciuto che un ruolo subordinato e ancillare, ben rappresentato dalla dicitura “commento musicale a cura di” che compare (spesso in coda) nei titoli di testa. Ne consegue che anche i più celebri titoli del neorealismo strettamente inteso (“Roma città aperta”, “Sciuscià”, “Paisà”, “Umberto D.”) assegnano alla componente musicale un ruolo drammaturgico di primo piano. Il problema, tuttavia, è innanzitutto generazionale.
Quasi tutti i compositori di questa stagione, come si evince anche dal saggio di Ruggeri, provengono direttamente, senza la minima soluzione di continuità, dalla stagione precedente. Ossia dal cinema dell’era fascista e dei cosiddetti “telefoni bianchi”. E quindi da narrazioni epico-trionfalistiche, commedie sentimentali, raffinati melodrammi alto-borghesi o libere ricostruzioni storiche in costume, improbabilmente consolatorie e schiettamente propagandistiche.
Renzo Rossellini (1908 – 1982), fratello di Roberto e infaticabile autore di opere, sinfonie, cantate, oratori e canzoni, era stato l’autore delle musiche, fra gli altri, per “Il signor Max” di Camerini (1937), “La principessa Tarakanova” di Ozep e Soldati (1938), “Rose scarlatte” di De Sica (1940), “La nave bianca” di De Robertis (1941), “Un pilota ritorna” di Rossellini (1941), “Giarabub” di Alessandrini (1942).
Alessandro Cicognini (1906 – 1995) anch’egli prolificissimo e in particolare sodale di Alessandro Blasetti, aveva composto per “Il corsaro nero” di Palermi (1937), “Ettore Fieramosca” appunto di Blasetti (1938), “Castelli in aria” di Genina (1938), “I grandi magazzini” di Camerini (1939), “Giuliano de’ Medici di Vajda (1941), “Un’avventura di Salvator Rosa” e “La corona di ferro” ancora di Blasetti (1940 e ’41), capisaldi del cinema del ventennio.
Giuseppe Rosati (1903 – 1962), figura più appartata, aveva scritto partiture per “Voglio vivere con Letizia” di Mastrocinque (1938), “Tragica notte” e “Malombra” di Soldati (1942).
Anche altri compositori, come Nino Rota (1911 – 1979), Mario Nascimbene (1913 – 2002) o Giovanni Fusco, (1906 – 1968) iniziano la loro carriera nel cinema negli anni ’30, ma il loro orientamento e la loro funzione successiva sarà del tutto diversa, come vedremo. Inoltre si noterà come la maggior parte degli stessi registi protagonisti della stagione neorealista provengano dagli anni precedenti (De Sica, Blasetti, lo stesso Rossellini): osservazione cui si può però obiettare che costoro, al volgere dei tempi nuovi, hanno saputo e voluto operare un profondo rinnovamento nel proprio stile e nelle proprie scelte.
Il problema dei musicisti, viceversa, è che nei casi che abbiamo ricordato sopra (con la parziale eccezione di Rosati), essi sembrano aver semplicemente trasferito il proprio linguaggio e il proprio stile nella nuova stagione senza operarvi nessuna trasformazione o adeguamento ai contesti profondamente mutati. Quel linguaggio e quello stile, peraltro, appartenevano e si rifacevano sostanzialmente agli ultimi retaggi dell’operismo e del melodramma ottocentesco italiano, e nella fattispecie alla straordinaria stagione verista, avendo come stelle fisse innanzitutto Puccini, ma anche Mascagni, Leoncavallo, Cilea, Giordano.La cosiddetta “Generazione dell’Ottanta” (Franco Alfano, Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, e poi Alfredo Casella, Gianfrancesco Malipiero. Luigi Dallapiccola, Goffredo Petrassi (1904 – 2003, il maestro di Ennio Morricone) s’incaricherà poi di affrancare la musica italiana dall’eredità tarro-verista sia in direzione di una maggiore attenzione verso le suggestioni dell’avanguardia anche recuperando la tradizione precedente all’epoca d’oro del melodramma, dalla prima polifonia al barocco sino al neoclassicismo. Costoro – peraltro – avranno col cinema un rapporto quasi inesistente o limitato a pochissime, calibrate esperienze (Petrassi, Malipiero, Pizzetti).
Ma per quanto attiene al cinema, si dovrà a figure di geniale, calibratissimo eclettismo (anch’esse incluse nel cofanetto CAM) come Rota, o di poliedrica vena sperimentale come Nascimbene , o di spiccata attenzione verso un prosciugamento delle forme come Fusco, se anche la musica per film italiana, dalla metà degli anni Cinquanta in poi – dunque a stagione neorealista conclusa – saprà radicalmente rinnovarsi: con le ironiche e pungenti partiture del primo per Federico Fellini, o le tonalità coloratissime ma ottenute con elaborazioni sonore avveniristiche e spericolate del secondo anche per kolossal come “Barabba” (1961, Richard Fleischer), o le sonorità essiccate, anche jazzistiche, di spettrale limpidezza del terzo per i più celebri film di Michelangelo Antonioni. Sino all’arrivo sulla scena di colui che, dalla lezione di Petrassi alle esperienze d’avanguardia e improvvisazione con il gruppo di Nuova Consonanza, rivoluzionerà definitivamente le coordinante della musica per film italiana, europea e non solo, liberandola per sempre dalle influenze del passato: Ennio Morricone. Ed è solo apparentemente paradossale che proprio qest’ultimo, insieme ad altri protagonisti di quella nuova stagione quali Piero Piccioni, Riz Ortolani, Armando Trovajoli, s’incarichi di immettere in questo settore le istanze di maggior rinnovamento a fronte di una rinascita dei “generi” più disimpegnati e commerciali quali western, giallo, horror, commedia. Generi popolari ma con musiche spesso ricercatissime, laddove la categoria del “popolare”, nel neorealismo, aveva spesso finito per coincidere con quella del “popolano”.
Inoltrandosi per così dire sul campo è proprio il cofanetto CAM, con le sue preziose riproposizioni nelle intelligenti orchestrazioni di Ridolfi, a rendere concretamente verificabile questo fenomeno di “ritardo”. Appariva già fuori posto la confusa, agitata quasi-fanfara che sottolinea la celebre scena dell’uccisione di Anna Magnani, ma si riascolti il tema principale rosselliniano di “Roma città aperta” (1945), dalle movenze di una stornellata capitolina appena lievemente malinconica. Risulta evidente l’intento di raggiungere una drammaturgia musicale attraverso una comunicazione emotiva immediata e spontanea utilizzando le coordinate linguistiche (appello a stilemi di musica locale, melodismo diretto, largo impiego delle tonalità minori) che erano state le medesime del cinema d’antan, attingendo largamente al lascito tematico del verismo. Una tendenza che in Rossellini compositore si fa ancor più esplicita in “Paisà” e “Sciuscià” (1946), dove però sembra attenuata da un ricorso senza filtri a moduli ricavati da fonti musicali dell’epoca.
Più felice e nel contempo meno convenzionale risulta l’apporto di Alesandro Cicognini al cinema di Vittorio De Sica, con il tema solitario e cantilenante di “Ladri di biciclette” (1948), i ritmi scanzonati e vagamente surreali di “Miracolo a Milano” (1951), e i colori crepuscolari, tra il funebre e il grottesco stravinskyano, di “Umberto D.” (1952).
Nessuno di questi compositori appare minimamente intenzionato (né vi è portato per formazione) a inoltrarsi nei territori musicali più avanzati del Novecento, né tantomeno (sicuramente su istanze dei registi) a lavorare sulle immagini per contrasto, opponendo a situazioni drammatiche, tragiche o patetiche, musiche più distanzianti e psicologicamente allusive. Mano a mano che ci si allontana dal nucleo cronologico centrale del neorealismo, la tendenza anzi sembra inizialmente accentuarsi: ed ecco che ad esempio Nino Rota dà libero corso alla proprio formidabile inventiva melodica in “Vivere in pace” (1947) di Luigi Zampa e “Fuga in Francia” (948) di Mario Soldati.
Un’eccezione a questa tendenza era stata però rappresentata, dove tutto ebbe inizio, da Giuseppe Rosati in “Ossessione”, fors’anche per il profilo particolarmente esigente ed esperto nelle materie musicali di Luchino Visconti. Anche se nemmeno qui compaiono spinte innovative o in qualche modo destabilizzanti, la partitura severissima, cupa, formata da pagine spesso intervallate da lunghe pause, sembra guardare più ai modelli musicali di certi “noir” coevi hollywoodiani, instaurando un climax di angoscia e attesa a tratti opprimente. Così come filologicamente pregevole e studiato risulta il lavoro compiuto da Willy Ferrero (1906 – 1954), stimato direttore d’orchestra – ruolo già ricoperto per la partitura di Cicognini di “Ladri di bicieìclette” – in “La terra trema” (1948) nel rielaborare con originalità e sobrietà melodie popolari siciliane.
Come si diceva, la lenta e graduale emancipazione del cinema italiano dal fenomeno neorealista avviene spesso non solo senza tradirne le radici ma addirittura cercando ancora di proseguirne l’appartenenza ben oltre la sua durata effettiva, perpetuandone modelli narrativi, ambientazioni, riferimenti (la guerra, soprattutto) e stilemi. I compositori di riferimento tuttavia non si sentono più obbligati in qualche modo ad enfatizzare gli aspetti più tragici del periodo e cominciano a cercare alternative stilistiche nonché metodi di “alleggerimento”. Ancora una volta è la lezione di Rota a spiccare, come in “Sotto il sole di Roma” (1948) di Renato Castellani, con quella sua felicità leitmotivica che sapeva alternare magistralmente momenti di danzante spensieratezza a improvvisi sussulti drammatici magari incorporandovi, come in “È primavera” (1950) ancora di Castellani, la celebre “Mattinata fiorentina” scritta nel ’41 da Michele Galdieri e Giovanni D’Anzi, e resa celebre da Alberto Rabagliati, dalla cui prima strofa è mutuato il titolo.
Appartengono a questa “nuova” svolta della stagione anche la felice tarantella di Cicognini per “Due soldi di speranza”, sempre di Castellani, e quel vero manifesto di partitura “noir”, convulsa e irrequieta anche se ttraversata da alcuni lampi melodici inconfondibili, scritta da Rota per “Senza pietà” (1948) di Alberto Lattuada.
Ma ecco alcuni evidenti salti di qualità. In “Riso amaro” (1949) di Giuseppe De Santis, fosca crime-story intrisa di melodramma e dall’esito tragico, un maestro come Goffredo Petrassi elabora la propria visione della musica cinematografica (cui darà pochissimi ma scintillanti contributi) verso un sinfonismo aspro e spigoloso, che non disdegna l’impiego di canzoni delle mondine o popolari ome quel “Mamma mia dammi cento lire” di origine piemontese e datazione tardo-ottocentesca, o l’irruzione di inserti jazzistici curati. anche in veste di direttore d’orchestra (insieme a Fernando Previtali, che con l’indimenticabile Franco Ferrara è la bacchetta principale di tutto questo periodo), da Armando Trovajoli (1917 – 2013), tra i massimi compositori del cinema italiano nonchè – insieme a Fusco e Piccioni – tra i pionieri del jazz italiano nel cinema. Un’impronta, quella petrassiana, che si ritrova anche in “Non c’è pace tra gli ulivi” (1950), ancora di De Santis, e nel suo continuo interscambio fra pagine sinfoniche concitate, moderne, e dichiarati richiami popolareschi.
Con Mario Nascimbene e “Roma ore 11” (1952), sempre di De Santis, sorta di antenato dei “disaster-movies” ispirato a un fatto di cronaca nera dell’anno prima (il crollo di una scala su cui si era assiepata una folla di ragazze in corsa per un posrto di datilografa) si entra, sia pur timidamente, in quella fase di sperimentazione che di lì a qualche anno troverà libero sfogo proprio nelle partiture di questo compositore e poi di Morricone: il maestro milanese infatti inserisce, nel contesto di una musica lieve, fatta di valzerini e stornelli, il significativo ticchettìo di una macchina da scrivere, ad evocare così il sogno ma anche il destino delle protagoniste.
Certo, si tratta di un episodio sin qui isolato. “Il cammino della speranza” (1950) di Pietro Germi ispira infatti a Carlo Rustichelli (1916 – 2004), autore di quasi 300 partiture filmiche tra cui la leggendaria saga di Brancaleone, tonalità nuovamente nazionalpopolari e patetizzanti, dove si affaccia anche qul “Vitti ‘na crozza” scritta nel 1950 dal compositore siciliano Franco Li Causi (1917 – 1980) su testo anonimo, immortalata tra gli altri anche da Domenico Modugno, e oggetto di una querelle sulla paternità che verrà risolta a favore del musicista solo poco prima della sua scomparsa.
Sinché, con l’arrivo sulla scena del cinema di Michelangelo Antonioni, anche ruolo e funzioni della musica cinematografica iniziano a compiere quella metamorfosi cui accennavamo all’inizio di queste annotazioni, verso una più decisa e inquieta anticonvenzionalità. Ed è appunto Fusco ad incaricarsene, con i ritmi irregolari e spiazzanti e le dissonanze esplicite, vitree e disturbanti di “Cronaca di un amore” (1950) : ed è curioso, ma anche significativo, che l’antologia CAM si chiuda con la figura di Mario Zafred (1922 – 1987), compositore e critico musicale triestino nonché portatore di un atteggiamento dialettico sino a sfiorare la contraddizione in termini. Da un lato allievo di Malipiero e Pizzetti, dall’altro ostile a qualsiasi forma di avanguardia e anzi entusiasta sostenitore delle teorie zdanoviane sul “Realismo socialista” in musica. Ciò che non gli ha impedito di accostarsi, sia pure raramente, a tecniche più avanzate, atonali e financo dodecafoniche, e di offrirne un esempio in “Achtung banditi!” (1951) di Carlo Lizzani, dove sia pur rielaborata e rimodulata in chiave quasi minacciosa, appare anche – singolare citazione visto il profilo ideologico dell’autore sopra ricordato – la celebre “Fischia il vento”, canzone partigiana scritta nell’estate del ’43 da Felice Cascione basandosi sulla melodia di “Katiuša”, altrettanto celebre canto sovietico composto nel 1938 da Matvej Blanter e Michail Isakovskij
Proprio in questo continuo, incessante interscambio tra suggestioni autoctone, patrimoni tradizionali, eredità operistiche e timide ma poi sempre più decise aperture alla modernità, risiedono le irripetibili caratteristiche della musica del cinema neorealista. Prima ad apparire sulla scena, come ricordavamo, ma ultima a recepire le urgenze di una nuova epoca, e destinata a giungervi quando la stessa si era già esaurita.
Del resto, si stanno avvinando rapidamente figure nuove, dietro la macchina da presa e dietro gli spartiti, e le cose cambieranno velocemente, proprio in concomitanza con l’acquisiione di “generi” facilmente identificabili e di sicura presa sul pubblico. Abbiamo già osservato come ad esserne l’indiscusso protagonista sarò Ennio Morricone, con i western di sapore shakespeariano di Sergio Leone e i primi thriller “godardiani” di Dario Argento.
Una tendenza che potrà giungere sino a casi estremi e illuminanti: il cui ideale approdo potrebbe essere identificato nella figura esemplare di Bruno Maderna (1920 – 1973) sommo direttore d’orchestra e compositore dell’area postdodecafonica e darmstadtiana, sodale di Luigi Nono e Giuseppe Sinopoli, che non solo non temette di “sporcarsi le mani” con il cinema di genere ma, per un thriller italiano assolutamente fuori dagli schemi e di spiazzante, disturbante inquietudine quale “La morte ha fatto l’uovo” (1968) di Giulio Questi, dà vita ad una delle proprie composizioni in assoluto più radicali e e urticanti. Non è un caso, forse, che ciò avvenga in quel Sessantotto che segna un trapasso definitivo fra un interminabile dopoguerra e una stagione che si rivelerà forirera di molte speranze e di altrettante incognite.
di Roberto Pugliese