Maria
La recensione di Maria, di Pablo Larrain, a cura di Mariangela Di Natale.
Un altro ritratto (terzo biopic) al femminile a opera del regista e sceneggiatore cileno, dopo Jackie (2016) e Spencer (2021). Maria, ben accolto alla 81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (distribuito da 01 Distribution), è il ritratto tormentato degli ultimi giorni di vita, nella Parigi degli anni ’70, di una delle più grandi cantanti liriche al mondo, Maria Callas.
La donna è interpretata da Angelina Jolie, che la rende incredibile per la voce e lo sforzo del canto poiché quasi tutti i brani sono cantati da lei, mentre altri invece intervallati dalla voce di Callas stessa. La vediamo fragile e solitaria, pallida e smagrita in camicia da notte e vestaglia nella sua casa parigina, tra stucchi e affreschi, insieme ai due barboncini, protetta dal suo tuttofare Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e dalla domestica Bruna (Alba Rohrwacher). La sua voce fuori dall’ordinario ormai resta solo un ricordo, poiché da anni Callas non si esibisce più in pubblico, la sua ultima tournée mondiale risale infatti al 1974.
Anche se ancora in tanti continuano ad apprezzare la sua voce miracolosa, c’è invece chi evidenzia il suo inarrestabile crollo. Una Callas in versione Larraín, emotivamente provata dal declino vocale e professionale, ma che rivive attraverso i ricordi del suo canto, unico irripetibile talento e momento di felicità quando calca i palcoscenici. Una donna labile che finisce per confondere la realtà con la finzione alla disperata ricerca di alleviare il dolore che si porta dentro.
In molte scene appare confusa e visionaria, a causa dei farmaci (Mandrax, ovvero il metaqualone) che assume fuori dal controllo medico, sopraffatta dalle allucinazioni (come il giovane che l’intervista) che la perseguitano durante il giorno. E poi a tormentarla anche ricordi di infanzia, il rapporto difficile con la madre e gli anni di povertà in Grecia quando insieme alla sorella (Valeria Golino) si offriva ai soldati tedeschi. Una vita di drammi, di amori, quello tumultuoso con l’armatore greco Aristotele Onassis, che nel 1968 sposa la vedova di John F. Kennedy, Jackie Bouvier Kennedy, ma anche di successi teatrali mondiali dal Covent Garden, il Met, La Scala di Milano alla Fenice di Venezia.
Pablo Larraín, autore molto attento alle storie delle donne del nostro secolo, in Maria (scritto da Steven Knight) rievoca il grande soprano tra nostalgie e rimpianti negli anni bui parigini prima di morire per un arresto cardiaco all’età di 53 anni il 16 settembre del ‘77. La scena iniziale si apre con un silenzio clamoroso della “Divina” che muore come gran parte delle “eroine” che aveva interpretato, ma questa volta è il salone della sua casa a farle da palcoscenico. La fine di un personaggio a sua volta degno di un’opera, dalle note della Medea a quelle della Carmen, della Wally a quelle di Butterfly col finale di « Vissi d’arte » della Tosca, prima di spegnersi.
Nata a New York il 2 dicembre 1923, da genitori greci, Anna Maria Cecilia Sophia Kalogheròpoulos, in arte Callas, è stata una dei maggiori soprani di tutti i tempi, dalla voce potente che le fece guadagnare il soprannome de “l’usignolo”, e dalla grande vocalità che ha saputo coniugare a un’eccellente capacità interpretativa. Maria Callas, debole e tragica come i suoi personaggi, riportò il dramma nell’opera, com’era alle sue origini, quindi non solo il canto, ma il melodramma, cioè recitare cantando.
Una voce inconfondibile, in grado di esplorare in maniera personale e unica, che l’ha portata a raggiungere il “picco del canto lirico“. Callas infatti, era in grado di raggiungere sia i bassi da mezzosoprano sia gli acuti dei soprano di coloratura. Le sue straordinarie doti, il successo artistico e mediatico, il mito costruito attorno a lei, le sono valsi l’appellativo de “la Divina”. I suoi trionfi e consensi che si susseguirono in tutto il mondo, hanno contribuito a rendere la sua figura leggendaria, oltre che un’icona di stile del suo tempo.
di Mariangela Di Natale