Rosi secondo il Sud: la ricezione dei suoi film nel Mezzogiorno

Paolo Speranza analizza l'accoglienza dei film di Francesco Rosi riservata dal Mezzogiorno.

“Se non avessi visto Le mani sulla città mi sarebbe stato impossibile scrivere quello che ho scritto: ho imparato lo sguardo sulle cose da quel film”.

È Roberto Saviano, in un colloquio del 2013 con Francesco Rosi (pubblicato su “la Repubblica” del 18 agosto con il titolo Le mani sull’Italia), ad attestare il filo rosso che lega il capolavoro di Rosi alla sua Gomorra. Diverso è il contesto – la Napoli dei primi anni Sessanta e quella attuale sono del tutto incomparabili – ma senza dubbio affini risultano l’ispirazione narrativa (la denuncia coraggiosa di una illegalità soffocante) e alcune soluzioni cinematografiche, prime fra tutte il ritmo sostenuto dell’azione, la fotografia e un montaggio impeccabili, la rappresentazione realistica (a partire dal linguaggio) del contesto sociale, la focalizzazione dei personaggi principali: ieri Nottola e De Vita, oggi i Savastano e il “traditore” Ciro.

A unire il giovane scrittore e il vecchio leone del cinema italiano, in una delle sue ultime uscite pubbliche, a dieci anni dal Leone d’Oro alla carriera, concorreva anche l’accusa, da una parte dell’opinione pubblica e della classe dirigente di Napoli, di aver denigrato la città, illuminandone solo gli angoli più bui. Con una differenza emblematica, che aiuta a rendere il “colore dell’epoca”: Le mani sulla città fu osteggiato da una parte della critica cattolica (la celebre stroncatura di Gian Luigi Rondi dopo la “prima” a Venezia, il lungo ostracismo della Rai) e soprattutto dalla destra politica (“A Gava il film addirittura piacque, a Lauro decisamente no”, confida Rosi a Saviano), mentre la levata di scudi contro Gomorra, nella versione televisiva, ha visto in prima linea i vertici delle istituzioni progressiste, il presidente della Regione De Luca e l’ex sindaco De Magistris, per una volta “uniti nella lotta” contro la presunta diffamazione di Napoli. Anche per il film di Rosi, tuttavia, il riconoscimento del valore artistico e civile fu tutt’altro che unanime e immediato. Soprattutto a Napoli e nel Sud.

NAPOLI SVELATA

Se nella Napoli-Gomorra di inizio millennio domina il Sistema, una sorta di Stato parallelo che si auto-alimenta in virtù di un’economia illegale diffusa e di codici culturali, soprattutto tra i giovani dell’immensa periferia, di matrice anarco-criminale, in quella del secondo Novecento ha regnato a lungo quello che Saviano nel colloquio con Rosi definisce “il Meccanismo”, un milieu politico-affaristico meno sanguinario rispetto alla disperata violenza della camorra contemporanea ma assai più pervasivo (nelle istituzioni, nell’imprenditoria, nei media) e soprattutto egemone, con forti connotazioni qualunquiste, nell’immaginario collettivo. Almeno fino al 1975, quando a Napoli, dopo trent’anni di opposizione al populismo di Lauro e poi alla Dc dei Gava, i partiti di sinistra vincono le elezioni ed è eletto sindaco Maurizio Valenzi.

Quale messaggio più tangibile, per segnare quella svolta storica, che dare la parola a Francesco Rosi?

Era stato Le mani sulla città, dodici anni prima, a svelare a Napoli e al mondo la vorace speculazione edilizia (che, con la complicità di buona parte del ceto politico, stava corrodendo la metropoli del Mezzogiorno dalle fondamenta, non solo in senso metaforico), sollevando un’ondata di indignazione e una presa di coscienza che diedero una spinta decisiva al rinnovamento politico e culturale della città. A sua volta, l’avanzata impetuosa della sinistra nei primi anni Settanta aveva messo fine all’embargo della Rai contro il film di Rosi, che finalmente approdò sulla tv di Stato il 26 novembre del ’75. “Soltanto oggi, e grazie al grosso spostamento a sinistra dell’elettorato, tutti gli italiani hanno potuto vedere il film. Quando lo presentammo a Venezia c’erano tra il pubblico, che applaudiva, quelli che fischiavano e che si erano portati le chiavi da casa per fare più baccano. Il film girò nelle prime visioni e poi fu subito tolto dalla circolazione. Mentre all’estero è stato proiettato dappertutto: in Francia, in Inghilterra, in Svizzera; in Germania è andato in televisione e persino nelle Università, più di una volta, seguito da dibattito”, riconobbe Rosi nel forum promosso pochi giorni dopo (nel primo numero di dicembre del ’75) da “La Voce della Campania”, prestigioso periodico della sinistra meridionale, con il titolo “Il film da fare oggi: Con le mani della città”.

Era la riprova lampante della relazione indissolubile nella filmografia di Rosi tra la sua idea di cinema e la vicenda storica di un Mezzogiorno in progress. Nel forum de “La Voce” quella barriera già così labile tra schermo e realtà finì per dissolversi del tutto: a confrontarsi con il regista, e con il sindaco Valenzi, sul futuro di Napoli, venne chiamato Carlo Fermariello, l’indimenticabile ingegnere De Vita in Le mani sulla città. Al tempo del film era segretario della Camera del Lavoro e uno dei leader più popolari del Pci in città, e Rosi aveva puntato sulla sua verve oratoria per affidargli il ruolo del coraggioso oppositore al “sacco di Napoli”, fino a sfidare le cariche della polizia. Assistendo alle sedute del consiglio comunale con l’amico e sceneggiatore Raffaele La Capria, nella consueta fase di documentazione “sul campo” che precedeva le riprese dei suoi film, “fui colpito dagli interventi di Carlo Fermariello, un consigliere comunale dell’opposizione così instancabile nella sua battaglia”, ricorda Rosi sul primo numero del bimestrale “Storie”, nel giugno del ’92.

Il passaggio dai banchi consiliari al set fu però tutt’altro che semplice e indolore. La testimonianza di Fermariello, sulla stessa rivista, apre uno squarcio importante sulla difficoltà di fare cinema politico in quell’Italia, anche negli ambienti più aperti e insospettabili: “Rosi mi propose di partecipare a questo film: a dire il vero inizialmente ci rifiutammo, sia io che l’allora segretario della Federazione del Pci di Napoli, Giorgio Napolitano (compagno di scuola di Rosi al Liceo “Umberto I” di Napoli, ndr), in quanto sostenevamo che un segretario camerale, personaggio pubblico – come allora si diceva – non potesse trasformarsi in un “guitto” e partecipare addirittura ad un film. Ma la diatriba si concluse grazie ad un deciso intervento di Giancarlo Pajetta, il quale ci invitò – testuali parole – a non fare i “perbenisti” e a partecipare comunque alla realizzazione del film, che avrebbe anzi sorretto la battaglia per la riforma urbanistica”.

Il capolavoro di Rosi e il coevo Le Quattro Giornate di Napoli di Nanni Loy avrebbero segnato in maniera determinante, in senso progressivo, l’immaginario su Napoli e il dibattito politico nella città, ma gli stessi dirigenti della sinistra napoletana – pur riconoscendone il valore artistico e civile – ne compresero l’effettiva portata soltanto più tardi, né mancarono le riserve e i distinguo: “A nostro avviso, l’eccessivo manicheismo nuoce alla forza realistica dell’opera”, scrisse sul primo numero di “Ribalta” Vincenzo Maria Siniscalchi, brillante penalista di orientamento progressista e critico cinematografico militante, animatore a Napoli e nel Sud di cineclub e riviste. Fedele a un topos inveterato nella critica cinematografica italiana (“il film precedente è sempre più bello”), Siniscalchi era in linea con la quasi totalità dei suoi colleghi nell’affermare la superiorità artistica di Salvatore Giuliano rispetto a Le mani sulla città, giudizio tuttora largamente condiviso. Meno convincente appare il giudizio sulla debole caratura realistica del film, riconosciuto invece anche su scala mondiale come modello di cinema-verité, portando lo spettatore nella vita reale dei quartieri popolari di Napoli e dello stesso consiglio comunale, dove il personaggio del sindaco (Lauro) è riconoscibilissimo e Fermariello addirittura interpreta se stesso.

Altrettanto significativa – sebbene mai citata dalla storiografia cinematografica – è la presa di posizione di due fra i più illustri intellettuali della Napoli dell’epoca, gli scrittori Luigi Compagnone e Luigi Incoronato (quest’ultimo anche segretario di sezione del Pci), pubblicata dal mensile comunista “Cronache Meridionali” nell’ottobre del ’63 come lettera al direttore. Pur riconoscendo “che l’opera di Rosi rappresenti un contributo molto serio ad una rappresentazione realistica della città meridionale”, confermato dalle reazioni scomposte di “ben determinati ambienti politici e sociali, i cui esponenti si sono sentiti colti in flagrante”, e intuendo acutamente l’affinità estetica tra Salvatore Giuliano e Le mani sulla città (“quella cioè di non fornire una storia apparentemente bella e compiuta allo spettatore, una storia apparentemente tutta persuasiva e chiusa in sé, ma la via della sollecitazione dello spettatore stesso, una collaborazione in cui il giudizio nasce da una serie di elementi forniti alla mente, alla fantasia, alla personalità del pubblico”),  i due scrittori non rinunciano ad alcuni rilievi critici, soprattutto – in linea con Siniscalchi – sulla caratterizzazione troppo schematica del personaggio di De Vita: “Dove invece si avverte una certa staticità, un elemento precostituito e tendenzialmente immobile – scrivono Incoronato e Compagnone –  è proprio in De Vita, la cui protesta sviluppa insufficienti elementi di articolazione, e lascia un po’ lo spettatore in difficoltà, chiedendogli un atto di fiducia eccessivo”, con il rischio di attenuare “l’incidenza politica dell’opera”.

Il giudizio “politico”, appunto. Che nei dibattiti dell’epoca sui film, e sull’arte in genere, finiva inevitabilmente per oscurare gli aspetti estetici e formali, per non dire di quelli produttivi e di marketing. Nell’intellettualità marxista, più colta e avanzata (e più cinefila) rispetto all’area conservatrice, questi dibattiti hanno spesso raggiunto livelli elevati di qualità ma anche di asprezza: un “fuoco amico” di cui avevano fatto esperienza diretta artisti di primissimo piano organici al Pci, come il regista Giuseppe De Santis per Riso amaro o lo scrittore Vasco Pratolini con Metello, e che si rinnoverà con toni persino astiosi nella stagione del Sessantotto fra i registi vicini al partito e i critici della “nuova sinistra” extraparlamentare.

Nel caso di Rosi, più che di polemiche si trattò di incomprensioni, peraltro circoscritte alla sua Napoli, o più probabilmente – a giudizio di alcuni critici – di grandi attese parzialmente deluse da “un autore finalmente tutto meridionale”, come lo definisce Dario Natoli in un ampio saggio su cinema e Mezzogiorno pubblicato su “Cronache Meridionali” nel dicembre del ’61. L’esordio di Rosi, nel ’58, aveva portato nel cinema italiano “una novità positiva e, ahimè, illusoria”, sentenzia Natoli, dal momento che La sfida “non esce dai limiti di un ripensamento intellettualistico del film nero americano”. Da un regista come lui, già aiuto di Visconti e formatosi nei Circoli del cinema, ci si aspettava ben altro che l’inizio di un “filone gangsteristico autoctono”, bensì “un film profondamente meridionale, volto ad illustrare ambienti, economie, e moralità tipiche di una ben determinata condizione umana”. Il famoso “contesto sociale”.

Nessun riferimento, in “Cronache Meridionali”, al grande successo di pubblico e di critica di La sfida, e soprattutto alla recessione produttiva del cinema italiano iniziata nel biennio 1955-56, segnato dal fallimento di molte case di produzione, dal crescente deficit di qualità artistica dopo i vertici raggiunti dal Neorealismo, dalla concorrenza della neonata televisione. In uno scenario così caratterizzato, un esordio d’autore finiva per diventare un’impresa prodigiosa, come affermò proprio nel ’58 il maestro di Rosi, Luchino Visconti, in un’intervista a Fernaldo Di Giammatteo, trasmessa in agosto alla radio e successivamente pubblicata su “Il Ponte”. I giovani registi, sosteneva il regista di Ossessione e Senso, erano i più penalizzati da quella crisi repentina, e per molti di loro non restava che accettare di dirigere commediole e filmetti, nell’attesa (a giudizio di Visconti assolutamente vana) di potersi cimentare in futuro con film di qualità.

Francesco Rosi fu tra i pochi a sottrarsi a quel destino di marginalità e compromesso, realizzando con La sfida un film di forte impronta autoriale, e al tempo stesso altamente spettacolare, che mise d’accordo pubblico e critica. Secondo Gianni Mengarelli, autore di un ampio saggio sul cinema di Rosi su “Cinemasud” (ottobre 1961), l’arma vincente del giovane regista era stata il ricorso alla tecnica dell’Actor’s Studio – “uno stile di narrazione fortemente sug­gestivo, violento e soprattutto trascinan­te” e del suo massimo esponente, Elia Kazan: “Se c’è stata una cosa, difatti, che impressionò in La sfida era la travolgente drammaticità del rac­conto che coinvolgeva gli spettatori in un susseguirsi di azioni improntate a una secchezza di stile tanto rigorosa quanto sorprendente per un debuttante. Il rigore di Rosi era lucido e non veniva mai falsato, la sintesi talvolta era arditissima e si compieva con una felicità di soluzioni di sapore inusitato. L’ambiente era scoperto, centrato con sen­so acuto, quel tanto sufficiente da dare uno sfondo valido alla narrazione, ma mai tale da sopraffarla”, è l’analisi di “Cinemasud”.

Come sarebbe avvenuto in anni più recenti per la trasposizione cinematografica del Cristo si è fermato a Eboli, a suscitare le riserve della parte più avanzata dell’intellighenzia meridionale rispetto a La sfida e soprattutto a Le mani sulla città furono ragioni di natura strettamente ideologica, alimentate dal coinvolgimento diretto di alcuni intellettuali nella vicenda politica e amministrativa.

Per la critica cinematografica nazionale, con rarissime eccezioni, La sfida era stato un esordio folgorante e Le mani sulla città fu giudicato un film di straordinario rilievo (Grazzini sul “Corriere della sera”) e degno erede del Neorealismo (Kezich su “Panorama”). E se un Rod Steiger in stato di grazia aveva conferito al faccendiere Nottola uno spessore tragico, non meno brillante per i critici si era rivelato l’attore-preso-dalla-strada Carlo Fermariello.

Una scelta felice da parte di Rosi, che mai tuttavia avrebbe immaginato di incontrare tante resistenze nella sinistra napoletana, a cui era peraltro assai vicino (che all’uscita del film lo tacciò di “pessimismo”), e soprattutto di ritrovare pochi anni dopo Fermariello sui banchi del governo cittadino, per provare a ricostruire – urbanisticamente e culturalmente – una città ferita da decenni di malaffare.

Com’era cambiata Napoli rispetto al contesto denunciato dal film di Rosi?, chiese nel forum del ’75 la redattrice de “La Voce della Campania” Rossella Savarese allo stesso Fermariello e a Valenzi. In maniera significativa, rispose Fermariello, e non soltanto per le nuove forme che aveva assunto il partito della speculazione: “Il cambiamento interessa anche il ruolo della sinistra, che in Le mani sulla città giocava un ruolo generoso, ma perdente”.

Per vincere, però, il film di Rosi era stato determinante. Perché per la prima volta, con la potenza dell’arte cinematografica, aveva fatto comprendere a tutti il Meccanismo, per dirla con Saviano, che malgovernava Napoli e gran parte dell’Italia.

DA MONTELEPRE A EBOLI

Bastano questi pochi (e finora pressochè ignoti) riferimenti alla bibliografia critica su Rosi per far emergere il paradosso che ha segnato a lungo la sua carriera di regista: in un contesto di pubblico e critica generalmente lusinghiero fin dall’esordio, le riserve più inaspettate, e non sempre comprensibili, sono arrivate quasi esclusivamente dalla sua Napoli, per meglio dire dalla Napoli laica e democratica nella quale si era formato, soprattutto dopo l’uscita (e il successo) di Le mani sulla città, Leone d’Oro a Venezia nel 1963 e applaudito in tutto il mondo.

Tutt’altra accoglienza aveva ricevuto l’anno precedente, in Sicilia e nella stessa Napoli, un film non meno difficile e potenzialmente “urticante” come Salvatore Giuliano. Quantomeno, come era lecito attendersi, nell’area progressista. A Palermo e nell’isola, fin dall’anteprima privata nel novembre del ’61, il film aveva entusiasmato sia il pubblico che i militanti politici e gli intellettuali schierati contro la mafia. “Se dovessi definire con un solo aggettivo il bellissimo film di Rosi Salvatore Giuliano direi che questa è un’opera giusta. È giusta sia sul piano poetico, ed è giusta sia sul piano della realtà e della sua interpretazione”, scrive Carlo Levi sul quotidiano “L’ora” di Palermo.

“Il fascino delle cose vere” è il titolo del forum su Salvatore Giuliano con cui “La Fiera del Cinema”, nel marzo del ’62, si fa portavoce del consenso unanime della critica. “Una sintesi fantastica e drammatica che ci spinge, oltre la cronaca, nel cuore stesso delle ragioni storiche, sociali, politiche e umane che l’hanno determinate”, afferma nel dibattito Antonello Trombadori, critico di “Vie Nuove” ed esponente di punta della cultura marxista. Mentre Di Giammatteo, curatore della rubrica di cinema del terzo programma radiofonico, vede in Salvatore Giuliano una innovazione estetica addirittura epocale per il cinema italiano: “La sua ispirazione è nata da un lungo e sempre più stretto contatto con la realtà”, superando in questo modo sia il Neorealismo “classico” di matrice zavattiniana, che secondo Di Giammatteo partiva non dalla realtà ma da una storia precostituita, e soprattutto la tradizione crociana, ricorrendo a un metodo di indagine scientifico e “sul campo”, precedente e funzionale all’atto creativo.

L’elemento di maggior interesse del forum è costituito dall’accoglienza riservata al film dal popolo siciliano, documentata su “La Fiera del Cinema” (all’epoca la rivista di settore a più alta tiratura) da alcune fotografie e dalla testimonianza del regista sui sopralluoghi effettuati a Montelepre, il paese del celebre bandito, e a Castelvetrano: “A Montelepre – dichiara Rosi – sono arrivato, ho girato per il paese prima da solo, poi con uno sceneggiatore, poi con l’aiuto regista. La gente mi guardava incuriosita e sospettosa, s’affacciava alle finestre, mi scrutava. Poi, alla vigilia delle prime riprese del film, mi hanno fatto un interrogatorio pubblico. Tutto il consiglio comunale, clero, tenente dei carabinieri, tutti quanti. La loro preoccupazione era solo quella di essere rappresentati nella luce giusta. Naturalmente non potevo rassicurarli, non potevo dire: non dubitate, farò vedere quanto siete stati maltrattati. Ho detto solo: state tranquilli perché mi vedrete lavorare sotto i vostri occhi e mi potrete controllare. Essi mi hanno visto lavorare e girare le scene nelle strade e far rivivere quello che era successo quindici anni prima: perché ho fatto una ricerca da pedante in questo. Sulle prime c’era soltanto molta curiosità in loro, poi piano piano venivano a dirmi delle cose, ad applaudirmi; dai balconi uno gridava: ‘È vero, è vero, era così!’. È stata un’esperienza formidabile”.

Altrettanto particolare fu l’esperienza della proiezione a Montelepre, a cui il regista volle assistere di persona dopo la trionfale accoglienza del film a Palermo. Assiepati nel salone cittadino, i conterranei di Giuliano tributarono al film un consenso inusuale, all’insegna dell’understatement, ma forse – considerando la mentalità collettiva dell’epoca – ancora più significativo. “Il silenzio di Montelepre”, titolò nell’aprile del ’62 “Realtà del Mezzogiorno”, mensile di area democristiana, nell’articolo a firma di Natale Tedesco, che riconosce (a denti stretti) al film un indubbio valore estetico ma ne sottolinea – alla stregua degli intellettuali di sinistra rispetto al personaggio di De Vita in Le mani della città – il deficit di approfondimento psicologico dei personaggi, che finisce per conferire a Salvatore Giuliano, afferma Tedesco, il tono di un documentario più che di un film a soggetto.

Anche in questo caso, è nella pubblicistica meridionale che emergono le voci più critiche sul cinema di Rosi. Nel caso di “Realtà del Mezzogiorno” si trattò tuttavia di un caso isolato, in un panorama critico segnato da un apprezzamento unanime e convinto per Salvatore Giuliano, anche da parte di critici severi come Giuseppe Marotta e Mario Soldati, dei teorici francesi George Sadoul e Jean Gili, fino all’ampio articolo su “Cine Cubano” (febbraio 1964) di Julio Garcia Espinosa, il regista e teorico più autorevole del nuovo cinema latinoamericano, in cui il cinema di Rosi è paragonato all’arte teatrale di Brecht.

Qualche settimana dopo il difficile “esame” a Montelepre, anche Napoli tributò un consenso convinto al film, suggellato nel partecipato dibattito al Circolo di cultura “Francesco De Sanctis”, il 7 aprile del ’62, alla presenza del regista, del critico di “Mondo operaio” Pio Baldelli e del vicepresidente dell’assemblea regionale siciliana Pompeo Colajanni. Fu quest’ultimo (riporta “Cronache Meridionali”) a sottolineare il valore politico del film, esprimendo gratitudine a Rosi “per l’amore verso la Sicilia ed i suoi abitanti che gli ha ispirato il film” e attestando, da conoscitore profondo delle vicende siciliane, la fedeltà del film alla situazione storica e la sua notevole risonanza, rispetto ai problemi della mafia e del malgoverno, nell’opinione pubblica nazionale.

Sul set di Salvatore Giuliano, intanto, si era materializzato l’incontro tra Rosi e Carlo Levi che avrebbe ispirato al regista, diciotto anni dopo, un film tratto da Cristo si è fermato a Eboli, il best seller mondiale sulle condizioni del Mezzogiorno italiano.

Al critico di “Positif” Michel Ciment, che intervistò il regista durante le riprese sul set a Craco, in Basilicata, il 18 aprile del ’78, Rosi confermò che già quindici anni prima, dopo l’incontro con Levi e appena ultimato Salvatore Giuliano, aveva in mente di realizzare un film da quel libro che l’aveva molto impressionato. “Levi era venuto a trovarmi a Montelepre durante le riprese – racconta Rosi al mensile francese (febbraio 1979) – e aveva poi molto apprezzato il film. Egli voleva affidarmi la trasposizione del suo libro, pensando che sarei riuscito a renderne bene l’atmosfera che lo pervade e il delicato rapporto tra il protagonista e la materia stessa del libro. Per diverse ragioni lasciai quel progetto in sospeso, perché in quel periodo ero preso da altri interessi artistici, ma ora ho pensato che, al contrario, questo è il momento opportuno per riprendere quel soggetto: in un’ottica però differente da quella che avrei scelto nel 1963. All’epoca sarei stato colpito soprattutto dalla miseria, le malattie, l’arretratezza dei contadini di una regione sottosviluppata e abbandonata da tutti, persino da Cristo. Oggi invece io penso che il punto di vista debba essere differente. Non è più soltanto la questione di rappresentare questi problemi, ma è soprattutto una questione di marginalizzazione di queste terre”.

Fedele al suo metodo, che potremmo definire storico-sociologico, Rosi svolse sopralluoghi accurati in tutta la Basilicata prima di individuare le location più adatte, a suo avviso, a restituire allo spettatore il mondo arcaico che quarant’anni prima si era rivelato agli occhi del confinato antifascista venuto da Torino. La scelta cadde infine su due paesi di particolare suggestione visiva: “Furono due i set più importanti del film, quello di Craco e l’altro di Guardia Perticara. Craco, un piccolo paese del materano che dal 1962 aveva cominciato a franare, all’epoca del film nel 1978 era già ridotto a un cumulo di rovine. Fra quelle macerie vennero ambientate scene importanti. Quelle esterne: l’arrivo di Levi ad Aliano e il suo primo incontro con il parroco don Traiella; il sanaporcelle alle prese con la sua chirurgia castratoria, le passeggiate esplorative di Levi per le vie del paese e alcune scene riferite ai due confinati comunisti. E quelle degli interni: la casa della vedova in cui Levi alloggiò nei primi giorni del confino alianese, cioè prima che, grazie all’interesse insistente della sorella del podestà, andasse ad abitare in un alloggio più dignitoso. Per quest’ultimo, venne utilizzata la stessa casa di Aliano dove Levi alloggiò effettivamente nel periodo di confino”, ricorda Domenico Notarangelo, fotoreporter e dirigente della Camera del Lavoro di Matera, nel suo libro Con Francesco Rosi nella Matera di Carlo Levi. Ricordi e immagini dal set (“Quaderni di Cinemasud”, Atripalda, 2011).

All’uscita del film, in Basilicata si rinnovò il corollario di dibattiti che aveva accompagnato le opere di Rosi sul Mezzogiorno. Il più importante, promosso a Matera dai sindacati, dalla Fondazione “Carlo Levi” e dal Consiglio Regionale alla presenza del regista, con gli interventi di autorevoli critici cinematografici (Antonello Trombadori), politici (l’ex ministro socialista Giacomo Mancini, il dirigente nazionale del Pci Gerardo Chiaromonte, il presidente del Consiglio Regionale della Basilicata Giacomo Schettini), sindacalisti (Sergio Garavini), studiosi (lo storico Rosario Villari, Rocco Mazzarone in rappresentanza della Fondazione Levi, il sociologo Domenico De Masi) registrò un coro di consensi alla scelta del regista. A Rosi fu riconosciuto soprattutto il merito di aver saputo rappresentare la Basilicata coniugando la sostanziale fedeltà al testo di Levi ad uno sguardo più moderno e complesso sulla realtà del Mezzogiorno interno: “Il film di Rosi è importante – è la sintesi di Mancini – anche perché Rosi forse ha visto quello che Levi non vide e non poteva vedere, che cioè non c’era solo rassegnazione nei contadini ma anche volontà ed esperienza di lotta”.

Neanche in questa circostanza mancò qualche voce dissonante, per la verità piuttosto isolata, sebbene accreditata di grande prestigio intellettuale come quella di Leonardo Sacco, intellettuale materano formatosi sul meridionalismo classico e direttore della rivista “Basilicata”, che al dibattito sul Cristo di Rosi dedicò un numero speciale con gli estratti di tutti gli interventi. Il titolo, Troppo poco leviano il Cristo del film, non rispecchia l’opinione prevalente – largamente positiva – sul film ma esclusivamente l’intervento di Sacco, dedicato in realtà soprattutto a confutare alcuni stereotipi sul libro di Levi che ancora perduravano nel dibattito politico sul Mezzogiorno: “Ciò che stiamo leggendo sui giornali in queste settimane intorno a questo film – afferma il direttore della rivista lucana – non è per noi incoraggiante. Ci fa infatti temere, specie nel grande pubblico, il ribadimento di antichi, errati giudizi sul pensiero di Levi, e sulle sue e nostre impostazioni meridionaliste”.

La polemica di Sacco era rivolta alle semplificazioni della stampa nazionale, “quasi si scopra nuovamente la drammaticità della situazione meridionale, e ci si affanni a chiedere ad un regista cinematografico giudizi politici, bilanci economici, suggerimenti sociali”, ignorando decenni di impegno ed elaborazione degli intellettuali meridionalisti, laddove Chiaromonte aveva invece rilevato che “il film è uno strumento di questo impegno perché esso serve a parlare al cuore della gente, a far capire a tutti l’importanza di questa lotta”, e Mazzarone aveva apertamente ringraziato Rosi “non solo per la sua fatica riuscita, ma soprattutto per quanto di provocatorio ha saputo conservare del memoriale di Carlo Levi”. Per i paladini, veri o presunti, del Mezzogiorno e per gli studiosi del cinema di Rosi resta oggi imprescindibile la lunga intervista rilasciata dal regista a “Positif” durante la lavorazione del film. Nella seconda parte, registrata da Ciment a Roma il 20 dicembre ’78, il regista ci consegna non soltanto la chiave di lettura più autentica del suo Cristo ma un una sorta di testamento poetico sulla sua idea di cinema e sul rapporto con il Sud, spesso problematico, come si è visto, ma indissolubile nell’arte come nella vita: “Lei sa – risponde Rosi al critico francese – che io ho fatto la maggior parte dei miei film sui problemi del Sud, e questo libro mi ha dato la possibilità di rappresentare con un rigore, più che voluto direi sentito, tutta la tematica meridionale. Ma questo rigore assoluto delle scelte tematiche non sacrifica affatto la libertà dei rapporti che Levi, in quanto individuo, intrattiene con il mondo del Sud. Questo film è il mio viaggio personale dentro il libro di Levi e al tempo stesso dentro la mia stessa cultura, nella mia infanzia, nei miei ricordi, nei miei conflitti, che sono quelli di un uomo del Sud”.


di Paolo Speranza
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