Madame Clicquot
La recensione di Madame Clicquot, di Thomas Napper, a cura di Guido Reverdito.

Se amate lo champagne, non perdetevi questa biografia in costume con fotografia nature in stile kubryckiano e ritmi compassati da feuilleton ottocentesco. Perché è la storia di una donna dal carattere fortissimo e con una volontà di ferro che, nella Francia napoleonica in cui un’assurda legge impediva al cosiddetto sesso debole anche solo di occuparsi formalmente della gestione dei beni di famiglia, ha la meglio sui pregiudizi sociali e diventa una delle prime imprenditrici della Storia, imponendo sul mercato un marchio divenuto nei secoli di culto nell’universo delle bollicine più nobili.
Stiamo parlando di Barbe-Nicole Ponsardin, meglio nota al grande pubblico come la Vedova Clicquot. Figlia di un ricco possidente, a soli 21 andò in moglie a François Ponsardin, a sua volta erede di una famiglia che già a metà del ‘700 produceva champagne nella zona di Reims. Quello che era in partenza il classico matrimonio combinato, si rivelò invece essere un trionfo d’amore. Ma quando, nel 1805, rimase vedova all’improvviso (il film punta sull’ipotesi del suicidio dell’instabile e mercuriale François, che in realtà morì forse di febbre tifoidea), anche per riempire il vuoto incolmabile lasciato nel suo cuore dalla morte dell’amatissimo marito, Barbe-Nicole prese in mano le sorti dell’azienda di famiglia, forte del fatto che il defunto aveva lasciato in eredità proprio a lei i terreni e la produzione vinicola dei Ponsardin.
Per farlo e per arrivare a clamorosi successi, questa antesignana dell’imprenditoria femminile (che ha il volto incredibilmente espressivo di Haley Bennet, attrice abbonata ai film in costume) dovette però combattere fieramente non solo coi pregiudizi misogini dell’epoca, ma anche con la resistenza del suocero, convinto che i metodi innovativi di vinificazione da lei proposti – e rimasti fino a oggi come una sorta di Bibbia laica nella produzione, fermentazione e conservazione dello champagne – avrebbero portato alla rovina un’azienda già piegata dai debiti, sfavorita da una serie di annate infelici per i capricci del tempo e condizionata dall’impazienza di arrivare a risultati che tardavano ad arrivare aggravando così il rosso nei bilanci.
Lento com’è giusto che sia un biopic che ha l’ambizione di restituire sullo schermo i ritmi di vita di due secoli fa scanditi dall’alternarsi delle stagioni, e presentato lo scorso anno al Toronto International Film Festival, Madame Clicquot è tratto da The Widow Clicquot: The Story of a Champagne Empire and the Woman Who Ruled It, biografia romanzata pubblicata nel 2009 da Tilar J. Mazzeo (che tre anni fa aveva già ispirato il musical di Broadway Madame Clicquot: A Revoluationary Musical).
Diretto da un regista al suo secondo film dopo una lunga gavetta come aiuto in produzioni di un certo peso, Madame Clicquot rientra a pieno titolo nel novero di quel cinema tipico dei giorni nostri che ha la missione di riportare alla ribalta figure di donne capaci di imporre la propria personalità e ritagliarsi ruoli di vertice in ere in cui solo gli uomini avevano accesso alle stanze dei bottoni. Facendolo, nel caso presente, col tipico schema del climax ascendente che parte dalla tragedia della vedovanza iniziale per arrivare al trionfo dell’affermazione finale attraverso un accavallarsi di alti e bassi drammatici cari al cinema a stelle e strisce.

di Guido Reverdito