La scomparsa di Bruno Breguet

La recensione di La scomparsa di Bruno Breguet, di Olmo Cerri, a cura di Gianluca Pulsoni.

Raccontare la Storia, quella con la S maiuscola, è sempre stato un qualcosa capace di tentare chi fa cinema in ogni angolo del mondo, sia attraverso opere di finzione sia attraverso l’uso di prospettive più aderenti alla pratica documentaristica. Al riguardo, eccezioni a parte, i casi più riusciti sono spesso quelli in cui la qualità del lavoro svolto si misura in base a una presentazione appropriata del soggetto che si vuole raccontare. E cioè, una presentazione capace di contenere sfumature, comprese le zone d’ombra e quindi gli aspetti più problematici inerenti all’argomento preso in esame, riuscendo a schivare la tentazione di dare giudizi troppo sommari.

È su questa strada che si può collocare il nuovo film di Olmo Cerri, La scomparsa di Bruno Breguet (2024), appena passato a “Visioni dal Mondo” (ma lo si è potuto vedere anche a Locarno). Chi era Breguet? Nel suo lavoro, Cerri ricostruisce la storia di questo cittadino svizzero, salito agli onori della cronaca in madrepatria a partire dagli anni 70 per il suo coinvolgimento in un fallito attentato terroristico in Israele, un’azione intrapresa come militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Fu un episodio che portò Breguet a scontare sette anni in prigione, proprio in Isreale – dal 1970 al 1977 – e che lo portò, da un lato, a scrivere un resoconto di quegli anni (La scuola dell’odio), e dall’altro, invece, a radicalizzarsi.

Il film, comunque, non si limita agli anni 70 ma va oltre, tocca cioè gli anni 80 e 90. Attraverso una meticolosa ricostruzione tramite documenti e interviste, Cerri ci racconta di quello che ha verosimilmente rappresentato il secondo elemento importante nella vita di Breguet, cioè della vicinanza di questi al gruppo terrorista di Ilich Ramírez Sánchez, meglio noto come Carlos lo Sciacallo. In merito, fra gli episodi avvenuti, si possono ricordare il coinvolgimento dello stesso Breguet nell’attentato a Radio Free Europe/Radio Liberty a Monaco di Baviera, il 21 febbraio 1981, e poi il suo arresto a Parigi nel 1982, dove fu trovato con esplosivi e armi.

Infine, c’è un terzo elemento estrapolabile dal film, quello riconducibile ai contatti di Bruno Breguet con la CIA, contatti che si possono far risalire ai primi anni 90. A questo proposito, Cerri fa parlare lo storico Adrian Hänni, le cui ricerche sullo svizzero, al momento, sono confluite in un libro uscito nel 2023, Terrorist und CIA-Agent. Hänni racconta di aver trovato in archivi USA documenti capaci di provare un legame tra l’agenzia federale statunitense e lo svizzero. Nei primi anni 90, spiega lo storico, la CIA era interessata a «far luce su quanto succedeva all’interno del gruppo di Carlos e a bloccare le loro attività.» Per questa ragione avere Breguet come informatore poteva tornare comodo. Nello stesso tempo però, è anche possibile che questo fatto abbia qualcosa a che fare con la scomparsa (la morte?) dello stesso Breguet, nel 1995. Questi si trovava su un traghetto, in viaggio dalla Grecia – dove allora viveva – all’Italia. Al porto di Ancona gli viene impedito di sbarcare, cosa che lo costringe a tornare indietro, ma il suo ritorno in Grecia non verrà mai registrato.

Nel complesso, il film delinea un ritratto accurato di Bruno Breguet: informativo, senza romanticismi, rispettoso della verità storica, e quindi anche capace di sottolineare le zone d’ombra che ancora esistono riguardo le vicende di questo individuo. Su un piano più generale del discorso, si può forse sostenere che un pregio del lavoro di Cerri sia quello di suggerire, se non argomentare, qualcosa di più. E cioè, come il caso di Breguet possa rappresentare, in un certo senso, una possibile metafora di una certa tendenza storica della militanza politica occidentale di sinistra, le cui scelte effettuate nella prospettiva di “cambiare il mondo” non sono riuscite a portare gli esiti sperati.


di Gianluca Pulsoni
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