L’amico fedele

La recensione di L'amico fedele, di Scott McGehee e David Siegel, a cura di Emanuele Di Nicola.

Spesso quando muore qualcuno ci si chiede: cosa succede al cane? Il lutto in sé è già un tema difficile da maneggiare, scivoloso, a rischio di forme retoriche, dal sentimentalismo al cinismo con molte vie di mezzo. Questo vale per la perdita umana, ma non meno per il lutto animale: si muove su entrambi i binari L’amico fedele, dal titolo originale più secco e conciso, The Friend, il film di Scott McGehee e David Siegel dal 6 giugno nelle sale italiane. Tratto dal romanzo di Sigrid Nunez che negli USA è un bestseller. Ma per arrivare al punto c’è un percorso: la prima inquadratura è dedicata a un mito bipede, Bill Murray, che sta facendo jogging lungo il fiume a New York. Walter Meredith è un grande scrittore, maestro e leggenda letteraria, solo che ha deciso di farla finita: la sua immagine va in dissolvenza e l’uomo si suicida.

Lascia dietro di sé un pugno di personaggi, soprattutto femminili, tra cui due mogli (una presente e una passata), una figlia e la principale allieva Iris, raffigurata in Naomi Watts, per cui Walter è stato mentore e migliore amico. Forse una specie di amore. Il lutto insomma è generale, prescinde dal genere e perfino dalla razza: anche il magnifico alano Apollo scivola in una condizione di tristezza per l’abbandono del padrone, che pare irredimibile. Non mangia, non si muove, lo aspetta alla porta come un novello Hachiko. Proprio Walter però aveva confidato alla compagna che, in caso fosse accaduto qualcosa, l’animale sarebbe stato affidato a Iris, autrice sola e senza figli, finora amante dei gatti…

Iris non può che accettare e inizia il suo rapporto col cane, gigante e disperato. La donna è una figura alleniana, scrittrice colpita dal blocco, con romanzo in perenne divenire, scolpita nelle strade di New York – più Greenwich Village che Manhattan – e avvolta nella perdita, come il corrispettivo canino. Non è facile gestire un cane enorme: al principio l’animale occupa il suo letto, rifiuta il cibo, resta fermo tutto il giorno. Poi, all’improvviso, dei piccoli segni: mentre la donna sta leggendo ad alta voce Apollo si avvicina e annulla la distanza sociale, rivelando l’abitudine di leggere del fu Bill Murray… E non solo, gradualmente dalla distruzione della casa si passa a un’ipotesi di convivenza pacifica.

Mentre Iris affronta questioni letterarie e astratte, sviluppando le relazioni con le “donne” di Walter, dall’altra parte si impone un problema concreto: a chi affidare il cane, come darlo in adozione visto che nel condominio non può tenerlo. E ovviamente si avvicina Natale. Nel costruire il meccanismo la coppia registica McGehee e Siegel evita un errore alla base: l’antropomorfizzazione dell’animale, tendenza che ancora favorisce uno sguardo post-disneyano classico ormai limitante e banale. In altre parole, Apollo non è un uomo e neanche ci somiglia: continua a comportarsi come un cane e il rapporto con la donna si intavola secondo il carattere di un alano (in inglese Great Dane) con gesti e segnali evidentemente studiati. Una relazione alla pari, dunque, tra due creature alle prese col lutto, ognuna coi proprio mezzi. Poi il sentiero narrativo prevede un’evoluzione e una catena di eventi che porta naturalmente a intravedere uno spiraglio, ma non serve svelare troppo: basti rilevare che il congegno è riuscito. Non è un “feel good movie” né un’istigazione alla lacrima, ma piuttosto una riflessione stratificata sulla morte, ciò che si porta con sé e ciò che si lascia indietro, metaforizzato non a caso con una precisa scelta di razza (i cani vivono poco). Film dolce e struggente, ma anche serio e intelligente, che evita parecchi equivoci e porta a casa la partita, seminando un messaggio implicito antispecista che ci sussurra all’orecchio ciò che sappiamo, non è certo l’uomo la migliore delle specie possibili.


di Emanuele Di Nicola
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