The Animal Kingdom
La recensione di The Animal Kingdom, di Thomas Cailley, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Forse lo dicono in pochi, magari lo notano tutti: i supereroi Marvel (e, in parte, DC) sono oggi l’equivalente del pantheon greco, un vero e proprio epos moderno. Con un uguale valore di metafora sociale, che nel cinema sconfina anche nella rilettura dei generi: ma non solo.
The Animal Kingdom è il film di apertura della sezione Un Certain regard del 76° Festival del cinema di Cannes, ed è non tanto una riflessione sul concetto del superpotere come mithos, ma un tentativo di affrontare temi attualissimi e scottanti attraverso la lene deformante del percorso corporeo. Che ovviamente guarda da vicino al concetto di superuomo di Stan Lee, in primis agli X-Men, però lo scarnifica, lo sveste dello spandex e lo riveste con l’orrore della mutazione.
The Animal Kingdom è il terrore della metamorfosi con tutte le sue derive emotive e psicologiche: perché infatti quando la trama potrebbe prendere la direzione del film catastrofico, deraglia e imbocca invece una direzione più intima, sfiorando il cinema del contagio ma concentrandosi però sui contorni dei protagonisti. Ovviamente nulla di nuovo sotto il sole: oltre la Marvel c’è Stephen King (ma i due grandi serbatoi è facile che si incontrino), però la sensibilità di Cailley è quasi indie, e infatti il percorso teorico del film va all’inverso di quello che i vede generalmente.
Perché siamo abituati a vedere il genere essere usato come “scusa” per andare contro il mainstream: The Animal Kingdom (versione inspiegabilmente inglese di Le Règne Animal, che funzionava anche in italiano) è invece quasi un body horror che diventa racconto di formazione, quindi il genere decostruito e adattato a storia universale.

di Gianlorenzo Franzì