La storia della principessa splendente
La recensione di La storia della principessa splendente, di Isao Takahata, a cura di Gianluca Pulsoni.
La storia della principessa splendente (2013) è tante cose insieme: ultimo film di una figura importante dell’animazione mondiale come Isao Takahata, e forse il suo lavoro più esteticamente spinto; una geniale trasposizione di un racconto popolare giapponese di inizio X secolo, Storia di un tagliabambù; un esempio di cosa dovrebbe essere il cinema.
Su Takahata, in Italia, tanti hanno scritto cose interessanti, sia focalizzandosi su di lui come autore (per esempio, Rumor, 2018), sia nel contesto dello Studio Ghibli (per esempio, Fontana e Azzano, 2024). Nella maggior parte degli studi, si rimarca come La storia della principessa splendente deve essere considerato fra i lavori più importanti del nostro. Inoltre, l’occasione che offre Lucky Red di potere vedere questo film di nuovo su grande schermo rende chiaro come si tratti anche di un lavoro di grande potenza estetica, specie per l’uso originale del tratto e del colore, e per la scelta di concepire gli sfondi come spazio visivamente sottratto, non-finito, spesso tendente al bianco.
La sperimentazione di Takahata però non è mero esercizio di stile, ma serve a calibrare al meglio la resa della narrazione del film, che privilegia l’emozione a discapito della spiegazione. Storia di un tagliabambù è un racconto sotto la cui apparente semplicità si celano idee e questioni profonde, che il regista giapponese decide – giustamente – di non affrontare di petto ma di evocare attraverso suggestioni. Così facendo, riesce a mantenere intatta l’aura del racconto originale.
Infine, nella scelta di Takahata di ricostruire le vicende terrene della bambina discesa dalla luna, si può vedere una via per il cinema del futuro. Ovvero: occuparsi del passato, alla luce di una sensibilità tale da salvaguardarne la trasmissione e reinventarne la visione, come nella sequenza straordinaria della fuga della principessa splendente dalla propria residenza nobiliare.
di Gianluca Pulsoni