La fortuna di scrivere con Caligari


La scrittrice e sceneggiatrice che ha collaborato all’ultimo film di Claudio Caligari, dal primo incontro, intimidito e sincero, alle fasi di un lavoro sempre straordinario e ricco di scambi preziosi. La grazia e la generosità di un maestro che non aveva bisogno di cattedre per instaurare un’intesa proficua e vera. La bellezza e il rigore, punti di riferimento costanti nel trattare la materia incandescente ed evocativa dei suoi film. L’umanità struggente di persone e storie ritratta, senza emettere giudizi, al centro del suo cinema.
Il presente testo è stato pubblicato sul numero 80. (ottobre-dicembre 2015) di CineCritica (versione cartacea)
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Per ricordare Claudio Caligari, a pochi giorni dalla sua scomparsa, Giordano Meacci – che con lui e con me ha scritto la sceneggiatura di Non essere cattivo – ha coniato il chiasmo “rigore della bellezza” e “bellezza del rigore”. Non sono sicura che l’ordine fosse proprio questo, ma la natura palindroma del chiasmo permette di rimediare agli inceppi della memoria, spero, senza procurare troppi danni alla poesia di questa sintesi. Perché per Claudio – e questo è il terreno su cui ci siamo trovati subito tutti e tre – la bellezza è sempre stata una questione di forma e se quella forma non è rigorosa nelle scelte e coerente con le intenzioni, allora nessuna bellezza è possibile. D’altra parte, a guardarlo con gli occhi di Claudio, il rigore ha anche lui una sua bellezza, perché non cedere mai alle tentazioni del compiacimento, della soluzione facile, aiuta a ricercare una forma per quanto possibile inedita, autentica e suadente. Tutto questo ha a che fare con l’artista Caligari e rappresenta in un tempo anche l’uomo: il nostro Claudio, persona bella e rigorosa; e dolce, a dispetto della ruvidità di certi atteggiamenti con cui troppo spesso è stato comodo etichettarlo (del resto, consapevolezza estrema da parte di un autore e indifferenza programmatica da parte dei suoi interlocutori metterebbero alla prova la pazienza di chiunque), come testimonia l’umanità struggente ritratta senza giudizio in tutte le sue opere.
Il nostro incontro si deve a Roberto Minutillo (e qui la parola gratitudine non basta). È venuta a lui l’idea di farci confrontare con Claudio sulle pagine che aveva scritto progettando NEC (come ha chiamato fin dal primo giorno, col suo gusto per gli acronimi, Non essere cattivo). Una lettura folgorante per me e Giordano, perché – a proposito di sintesi poetiche – Claudio era riuscito a farci vedere con pochi segni tutto il film, il suo nucleo vivo (che poi è quello di cui s’innamorò fin da subito anche Valerio Mastandrea, senza il quale NEC non ci sarebbe mai stato): l’amicizia tra i due fratelli di vita Cesare e Vittorio, già lì battezzati con i nomi dei personaggi di Amore tossico e di Accattone.
A quel punto, scrivemmo una lettera di commento a Roberto, procedendo per associazione libera ed emozionata, affastellando i propositi di sviluppo che quelle pagine ci avevano ispirato, cercando di non pensare al fatto che poi presumibilmente sarebbe stato riportato tutto a Claudio. Ma la materia – quella già viva nelle sue parole – era talmente incandescente ed evocativa da arginare sul nascere ogni soggezione: l’idea stessa che dopo tanto tempo si potesse realizzare un nuovo film di Caligari era così esaltante da spingerci a mettere in secondo piano le nostre remore e a farci trovare il coraggio di camminare nudi, come avrebbe detto Yeats.
E allora ci si ritrovò, un pomeriggio di ottobre del 2012. E come prima cosa a parlare del termine scrauso, a venti anni esatti di distanza da quando, insieme ad altri amici dell’università, con Giordano fondammo l’Accademia degli Scrausi, appunto. Un’associazione di giovani studiosi della lingua italiana “periferica”, come era ancora a quei tempi in àmbito accademico la lingua delle canzoni, del cinema, delle scritte murali. Per raccontare il nome che ci eravamo scelti, in quel periodo andavamo ricordando a tutti quelli che se ne erano lasciati incuriosire che scrauso era attestato nell’italiano antico nella confessione di una strega del Cinquecento col significato di “sciocco”; facendo poi perdere le proprie tracce fino a riemergere nel gergo delle borgate romane degli anni Ottanta, e questa volta immortalato nel suo significato rinnovato di “scadente” proprio in Amore tossico (usato sia come aggettivo sia come sostantivo). Il nome di Claudio, insieme al suo film, dunque, aveva puntellato una prima tappa fondamentale del nostro percorso di studiosi e di scrittori e quel pomeriggio ci fu data occasione di raccontarglielo. Da lì si passò a parlare di cinema: di Pasolini; di Scorsese. Di Fellini e di Ferreri. Saltabeccando da un gigante all’altro, cercando intanto di circuire il demone: il terrore che avevamo di essere inadeguati quando inevitabilmente Claudio – il vero gigante lì, poi – ci avrebbe chiesto di parlare di NEC. Solo che lui non lo fece (mai scontato nella vita prima ancora che nell’arte). E invece cominciò a discutere di disponibilità e di scadenze, ragionando con noi di un’ipotesi di calendario. Con Giordano ci venne naturale di stare al gioco, e poi di guardarci negli occhi, una volta rimasti soli, per chiederci frastornati e increduli: «ma allora lo scriviamo noi?».
La fine della storia è nota. Meno, suppongo, le tappe intermedie che da quel primo incontro, in un’armonia miracolosa, ci portarono tutti e tre a completare la sceneggiatura nell’aprile dell’anno successivo.
Mentre con Giordano si lavorava a un’idea di struttura degli appunti iniziali, Claudio continuava a raccogliere materiali di prima mano sulla realtà di Ostia – già trasfigurandoli, nel raccontarceli, in inquadrature sorprendenti: come il punto di vista del diavolo quando Vittorio lo vede in allucinazione nell’olio che sfrigola in una padella – grazie a Emanuel Bevilacqua, a cui aveva affidato il ruolo del Rozzo in L’odore della notte, e che da allora era diventato per lui un amico e un punto di riferimento ineludibile nell’indagine di quel territorio per lui così prolifico di spunti.
A proposito di forma, il primo punto d’intesa fu la gestione del tempo narrativo. Il racconto doveva procedere per ellissi, confidando nell’intelligenza dello spettatore che ben poteva completare le informazioni mancanti – per usare le parole di Steven Johnson – nei salti a cui lo avremmo costretto nel passaggio da un atto all’altro. A un primo straniamento, per esempio, quando ritroviamo Vittorio già accasato con Linda (a cui aveva affidato la pistola, in spiaggia, senza neanche conoscerla), doveva corrispondere secondo noi un suo coinvolgimento – un coinvolgimento dello spettatore – nell’immaginare tutto ciò che doveva essere accaduto off screen: l’innamoramento, la ricerca di un lavoro da parte di Vittorio, la nuova vita a casa di Linda. Arrivandogli, dopo un’iniziale sorpresa – questa almeno era la speranza – con il dipiù di quella “gratificazione ritardata”, sempre per citare Johnson, che premia lo sforzo di comprensione con le conferme necessarie.
Per Claudio, del resto, era fondamentale stare sempre su Cesare e Vittorio e non perdere mai di vista il loro rapporto (non a caso, anche quando è solo con Linda, Vittorio discute sempre con lei del suo amico e della cattiva influenza che secondo la donna avrebbe su di lui). Unica eccezione in questo senso, le scene in casa di Cesare, dedicate alla nipote malata. Una storia a cui Claudio teneva moltissimo, non solo per la sua aderenza a una realtà che aveva conosciuto durante le ricerche, ma per una proiezione personale che a dire il vero a me e Giordano ci fu chiara fino in fondo solo a posteriori, quando la malattia dell’artista si rese nota anche a noi con le sue conseguenze fatali. E dire che era lì, sotto gli occhi di tutti, nella ricerca ossessiva di un orsetto per Debora che fosse in tutto uguale a quello che Claudio aveva da bambino, ma tant’è. Quella storia per noi fu la più difficile da scrivere, dato l’alto potenziale melodrammatico, e non trovammo altro modo che giocarla in dissonanza, cominciando già dall’appellativo di “brutta” con cui Cesare si rivolge alla nipote, come se non ci fosse altro modo per lui per gestire tutto quell’amore che negarlo con l’ironia delle parole.
In una prima fase di scrittura, Claudio prevedeva qualche scena anche per la famiglia di origine di Vittorio (nella fattispecie un padre operaio che quando rientra sfatto dal lavoro e con qualche bicchiere di troppo picchia la moglie, entrando in conflitto anche col figlio), anche se poi si lasciò convincere dell’opportunità di tagliarle. Una rinuncia che dal nostro punto di vista aveva un doppio significato. Da un lato ci piaceva che le famiglie dei due protagonisti avessero una specie di valore a chiasmo: Cesare, che è il personaggio che resta fermo, inchiodato alla sua realtà, doveva essere ritratto nella famiglia d’origine; Vittorio, che è quello che prova a muoversi e a sperare in un futuro diverso, doveva essere immerso nella famiglia che stava tentando di costruire. Dall’altro lato, però, da parte nostra, c’era anche l’idea di costringere Claudio a una scelta. Se è vero quello che Pasolini fa dire al corvo di Uccellacci e uccellini con le parole di Pasquali, che i «maestri vanno cucinati in salsa piccante», anche Claudio doveva mettersi ai fornelli, scegliendo al dunque, tra i due amici, quello che arrivava direttamente dalla sua cinematografia e che poteva brillare di luce propria anche quando il suo fratello di vita non era in scena.
Questo sempre per restare sul terreno delle intenzioni. Quanto al lavoro, alle giornate passate a ragionare con Claudio – ogni volta una lezione di cinema, offerta con la grazia vera dei maestri che non salgono in cattedra e al contrario ti danno sempre l’impressione di avere qualcosa da imparare da te – e a pensare e a ripensare ogni dettaglio per non accontentarsi mai della prima soluzione, resta il rimpianto paradossale di un’intesa fulminea, perché ci domandiamo sempre con Giordano quante altre occasioni avremmo potuto avere per stare con lui e per attingere al suo bagaglio di cineasta se solo qualche volta ci fossimo lasciati in disaccordo, avendo la necessità di riprendere quel dato discorso in un incontro ulteriore. Macché. La fiducia reciproca che si era creata fece in modo che Claudio affidasse a noi il polish anche dei dialoghi che aveva scritto lui, confidando nella nostra lingua madre (noi romani e lui di Arona) e nei nostri studi da linguisti. E anche quella è stata una fase delicata del lavoro, perché raccontare il passato prossimo (il 1995 nella fattispecie) è difficile. Non c’è abbastanza distanza per rendersi conto – senza una sorveglianza meticolosa – di tutto ciò che sarebbe entrato in uso magari solo qualche anno dopo. Per questo, quando era il caso, anche qui confidando sulla competenza attiva di Emanuel Bevilacqua, c’è stato un lavoro capillare che nelle nostre intenzioni – oltre evitare il rischio degli anacronismi, appunto – doveva svolgere due funzioni in particolare: scegliere un romanesco che sembrasse naturale e a tutti gli effetti parlato, pur essendo completamente scritto; variare il dosaggio di quel romanesco a seconda dei personaggi. Linda, per esempio, che più di tutti intende elevarsi dall’inferno della borgata (pur nei limiti degli strumenti a sua disposizione), doveva parlare un italiano regionale, molto marcato in senso romano, ma con qualche possibilità in più, come per esempio il congiuntivo. E così i due bambini, Tommasino e Debora. E Cesare e Vittorio dovevano fare lo sforzo, con loro, di limitare la deriva del dialetto. Naturalmente, quando scrivevamo, non sapevamo ancora che le nostre battute sarebbero state affidate a quattro attori di sensibilità formidabile come Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Silvia D’Amico e Roberta Mattei, perché in effetti, con quella consapevolezza a priori, la ricerca avrebbe potuto essere ben più rilassata, ma magari in questo caso con Claudio ci si sarebbe visti ancora qualche volta in meno, e allora meglio così.
Ora, sento già, da qualche parte, come se fosse qui vicino a me, mentre scrivo, Claudio che mi invita a cercare una chiusa, preoccupato com’era sempre dal senso del ritmo e della misura: e tanti sono stati i tagli anche nella sceneggiatura, convinto com’era che se arrivi a tagliare le cose belle (quelle che non funzionano sono capaci tutti) allora sei vicino alla fine del lavoro. E io ci sto, seguo ancora una volta il suo consiglio, anche se il discorso continua, magari tra me e lui, e Giordano, in qualche zona delle nostre teste, dove Claudio muove il capo in un accenno di sorriso con la sua prossima lezione, piena di rigore e di bellezza
di Redazione