Dibattito: critica e cinema italiano – Un articolo del regista Fabio Rosi
C’era una volta un giovane aspirante regista che decise di fare un film. E’ una storia che si ripete fissa ed immutabile, nel senso positivo dei termini. Eppure, quasi a volere per forza connotare il lieto evento con un’appendice rischiosa – la perfezione non è di questo mondo – è necessario prima o poi confrontarsi con i critici, Scilla e Cariddi dei tapini cineasti in rotta verso Itaca.
Personalmente sono un neofita, ma la mia impressione è che purtroppo non conti molto l’aver fatto un film buono o cattivo. Ciò vale spesso per i grandi registi, sempre o quasi per autori agli inizi. Non esiste uno straccio di rapporto/contatto tra autori e critica. Spesso si parla di un film senza addirittura averlo visto (ed io stesso ho vissuto questa esperienza, in negativo, sulla pelle).
Il critico dovrebbe essere – vorrei che fosse – un vero e proprio contributo al processo produttivo in senso lato. Tramite un filo diretto con il regista, discutendo a tu per tu, spiegandosi le rispettive ragioni, con la convinzione di lavorare dalla stessa parte della barricata, anche se dialetticamente. Forse neanche io saprei indicare con precisione modi e gradi di questo coinvolgimento, ma certo si deve partire dalla conoscenza reciproca tra autori e critici, proprio con una frequentazione personale, non affidandosi esclusivamente alla mediazione immagini/carta stampata. E non solo in ovvii singoli casi, sempre guarda caso tra grandi firme e grandi maestri, altrimenti si continueranno a vedere brutti film di grandi autori, salvati da un critico (amico) solo grazie alla rinomanza del regista, quasi esistesse un diritto al “vitalizio da chiara fama”.
Non voglio trovare, come potrebbe invece sembrare, un escamotage per salvare a cuor leggero tutti i film, specialmente i miei, grazie ad un patto di ferro tra autori e critica, ma solo fare in modo che quest’ultima sia un elemento costruttivo per il regista e il proprio processo creativo.
Troppo spesso il critico assume l’atteggiamento sciatto e semplicistico dello spettatore/pubblico, non avendo però di questi ultimi l’innocente ingenuità (e, lasciatemelo dire, il diritto acquisito dall’aver pagato per vedere il film!).
Insomma penso che il critico, in un’ideale scelta di campo, debba posizionarsi al di qua del film, perché al di là c’è, e ci deve essere, sempre solamente il pubblico.
Vorrei concludere citando la mia personale esperienza di regista, di un film del quale si è parlato, sentito e scritto moltissimo, prima ancora di essere stato distribuito nelle sale: il caso più eclatante degli ultimi anni di produzione indipendente. Tanto è vero che ad una proiezione di presentazione nella sala dell’ANICA, a Roma, non c’era letteralmente posto neanche sul pavimento, tante erano le persone intervenute (e non c’era un solo mio parente od amico). Mi è stato detto, dopo, che erano presenti diversi critici. Io non ne conoscevo, dunque non riconoscevo, ancora nessuno o quasi. Eppure sono stato presentato all’assemblea, prima della proiezione. Continuo ancora oggi a non conoscerne nessuno o quasi.
Probabilmente il film non sarà piaciuto a quei critici. Ma se invece tutta questa storia della mancanza di rapporto tra autori e critica, specialmente tra giovani autori sconosciuti e critica, fosse solo una questione di convenienza e di buona educazione?
di Redazione