Il Bisogno dell’altro da sé. Una riflessione su La stanza del figlio

Nanni Moretti

Nanni MorettiSe in Aprile l’autarchico Nanni diventa papà, getta i ritagli di giornale al negativo accumulati negli anni, indossa panni che non aveva mai osato e dà inizio alle riprese de l’agognato musical, portando felicemente a compimento il tortuoso cammino verso l’età adulta, con La stanza del figlio il regista compie un ulteriore passo in avanti nel difficile mestiere di uomo.
Lo si comprende immediatamente, a partire dall’attività lavorativa che Moretti sceglie per il suo personaggio: lo psicoanalista deve, necessariamente, essere in grado di ascoltare l’altro e di eclissarsi per fargli spazio.

La distanza siderale che separa Giovanni Sermonti da Michele Apicella è evidente più che mai se si pongono a confronto la sequenza della masturbazione di Io sono un autarchico e quella in cui, in quest’ultimo film, Giovanni-Nanni, per la prima volta, mostra, in maniera diretta, concreta, fisica, il desiderio nei confronti della propria compagna.
Non solo: in La stanza del figlio, Nanni è dotato di una tenerezza, di una dolcezza sconosciuta a Michele Apicella.
Che il narcisismo delle opere precedenti sia stato completamente superato è acquisizione dello stesso Moretti- Sermonti che, a proposito dei suoi piedi, citando un poeta, si domanda: sono ancora le mie dita?
E sempre di piedi e di scarpe si parla per sottolineare l’avvenuto cambiamento: alla paziente ossessiva, preda di orari e di scadenze, Giovanni immagina di far vedere la sua collezione di calzature. Si riconosce, quindi, in lei ma contemporaneamente, ormai, prova verso quel modo di porsi di fronte alla vita solo insofferenza e un salutare rifiuto.
Anche le considerazioni che egli fa a proposito di altri due suoi pazienti si adattano perfettamente a Michele: la necessità di imparare ad aspettare e di non rifiutare quanto di bello accade perché si pensa di non meritarlo, fanno parte di una problematica ben nota all’ alter-ego cinematografico di Moretti.

A ben guardare, ogni persona in cura da Sermonti presenta aspetti caratteristici di Apicella: si pensi all’ironia della ragazza che non riesce a separarsi dall’analista, ai sensi di colpa di un altro, alla paura della sessualità del “maniaco” interpretato da Accorsi, all’intransigenza dell’uomo maturo, alla spaventosa solitudine di un altro ancora, all’amore per i bambini di un’anziana signora, al sentirsi sempre controcorrente di Oscar.
L’identificazione, ma anche il suo superamento, di Giovanni con i pazienti è provata, simbolicamente, dalla sequenza che lo vede correre, subito dopo aver consigliato alla donna ossessiva di non fermarsi.
In fondo, il dramma che Sermonti vive in seguito alla scomparsa del figlio è, seppur in tono minore, lo stesso con cui devono misurarsi i vari analizzati, dopo la sua scelta di abbandonare la professione.

Il confronto con la perdita è, dunque, il tema del film. La morte, però, non è più, come in La messa è finita, tutt’uno con una ferita narcisistica: al centro di La stanza del figlio è il lutto di in uomo che, pur conservando, in parte, determinati tratti, è ormai, inequivocabilmente, cresciuto e capace di amare, nel senso più profondo del termine.
In Giovanni, del vecchio Michele, permangono l’interesse per le facciate delle case, le battute sul liceo classico, la curiosità per la vita sentimentale altrui, o, più seriamente, la paura di perdere qualcosa avvicinandosi agli altri e la tentazione di regredire.
In realtà, la maggior parte di questi atteggiamenti costituiscono, ora, quasi un gioco: Giovanni ha imparato a non fuggire e ad entrare davvero in contatto con l’Altro da Sé, come dimostra proprio il rapporto con il figlio.
Andrea è quanto di più lontano dal padre si possa immaginare: Irene, la figlia, con la sua irruenza e la sua determinazione, è sicuramente più affine, caratterialmente, al genitore.
Pur tuttavia, anche prima della disgrazia, le attenzioni di Sermonti sono rivolte soprattutto al figlio, incomprensibile, per lui, nel suo essere alieno da agonismo e competitività, ma comunque amato.
Anche il ritorno alla vita, dopo un dolore che non può essere detto, come prova la fallita telefonata all’amico dall’ospedale, avviene con la riapertura all’Altro che, certo, rimanda l’immagine di quanto più amato finora, ma pure è visto per ciò che realmente è. La fidanzatina di Andrea è diversa da come se l’era immaginata Paola e, per di più, ha un nuovo amichetto: nonostante questo, Paola, Giovanni e Irene hanno bisogno di lei. Come lei ha bisogno di loro.

La stanza del figlio, opera di un grande autore, nato come autarchico, insegna che non possiamo fare a meno dell’Altro e che solo uscendo da noi stessi , la vita acquista, o ri-acquista, sapore e significato.


di Mariella Cruciani
Condividi