Costanza Quatriglio, sulla soglia

Terramatta, di Costanza Quatriglio

Il saggio di Cristiana Paternò su Costanza Quatriglio è stato pubblicato su CineCritica n.70-71 nell’ambito del numero speciale dedicato al Nuovo Cinema Italiano.

Mi piace iniziare con una citazione di Martin Buber, filosofo della “relazione”, questo intervento sul cinema di Costanza Quatriglio (Palermo, 1973), cineasta che ha la qualità, rara persino in molti documentaristi, dell’ascolto aperto. Il suo, infatti, è un cinema fatto di voci. L’ultima: la voce di Vincenzo Rabito, l’analfabeta siciliano, classe 1899, al cui fluviale diario si è ispirata per lo splendido terramatta; attraversamento ininterrotto del secolo breve, film in cui, con tono visionario e flusso musicale e di coscienza, i filmati d’archivio dei grandi eventi della storia italiana del Novecento diventano vita vissuta, carne da cannone. Alla voce di Roberto Nobile che legge la testimonianza di Rabito, tutta in prima persona, si sovrappongono le parole del dattiloscritto che si fa videoarte: ingrandito, proiettato, amplificato. Nelle mille pagine del memoriale pubblicato da Einaudi, Costanza ha ritrovato il ritratto di un italiano con le sue colpe e i suoi vizi non taciuti: l’opportunismo di un voltagabbana pronto a farsi fascista, sempre alla ricerca di una raccomandazione, ma anche la volontà di dire tutto, non occultare neppure le pagine più ingloriose, persino lo stupro di gruppo a cui partecipa. Il film ha avuto, giustamente, una straordinaria risonanza, vincendo fra l’altro un Nastro d’argento. Ma non è una sorpresa per chi conosce il percorso coerente e di grande complessità umana e artistica di Costanza Quatriglio.

Data al 2003 il suo lungometraggio L’isola, visto alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes. Un film materico ed estremamente libero, dove Turi e Teresa, un fratello e una sorella, dieci anni lei, qualcosa di più lui, diventano grandi sull’isola di Favignana nello scorrere di due stagioni, dal freddo all’estate. Lì la regista, all’epoca appena trentenne, aveva messo a frutto la sua lunga esperienza di cinema del reale (attenta in particolare ai bambini e ai vecchi, proprio perché capace di spingersi ai margini della società), orchestrando elementi narrativi e di finzione, con la presenza di un attore come Marcello Mazzarella nel ruolo del padre e dello scrittore Erri De Luca in quello di un detenuto, all’interno di un tessuto di realtà, la vita dei tonnaroti, i rapporti familiari e sociali sull’isola dove si vive come fuori dal tempo. I Cahiers du Cinéma avevano paragonato l’opera a Stromboli terra di Dio di Roberto Rossellini (1950) pensando alla scena in cui Karin (Ingrid Bergman) assiste alla mattanza dei tonni. Ma in effetti il cineasta più vicino al percorso di questa regista è il palermitano Vittorio De Seta (1923-2011), come vedremo anche nella bellissima intervista che ci ha concesso. E poi per la giovane cineasta era fondamentale rappresentare il divaricarsi dei percorsi di fratello e sorella. Quindi la tonnara, agli occhi di Teresa, è soprattutto il recinto proibito per una femmina che sta diventando adolescente.

L’adolescenza come superamento di un confine, di una soglia, e momento cruciale del formarsi dell’identità, spesso un’identità divisa tra due culture e due appartenenze, è centrale in tutta la sua ricerca. Con documentari come L’insonnia di Devi (2001) sui destini di giovani indiani adottati e cresciuti in Italia e sul loro ritorno alle radici o Raìz appunto (2004), tre puntate per Raitre sulle immigrate capoverdiane, o il precedente Ècosaimale? (2000) girato in un’estate a Palermo, attorno al quartiere di Ballarò che possiamo considerare la sua opera prima (ma, a partire dal ’95, aveva realizzato molti cortometraggi sia a livello amatoriale che durante la formazione al Centro sperimentale seguita alla laurea in giurisprudenza). Qui, tornata nella sua città natale, si pone (e ci pone) un’interrogazione sul bene e il male attraverso l’esperienza di un gruppo di bambine e ragazzine di diverse età a cui viene data la parola senza filtri o censure.

Attraversamento di confini e costruzione dell’identità sono al centro anche del notevole Il mondo addosso (2006), un film costruito sulle storie di quattro ragazzi stranieri alla soglia della maggiore età e quindi sul punto di diventare clandestini in base alla legge italiana: Mohammad Jan, Cosmin, Inga e Josif. Oltre a un giovane afghano senza volto di cui sentiamo solo la voce che racconta di come, tornando a casa da scuola a 6 anni, abbia trovato la sua famiglia sotto le macerie e sua madre morente. Nessuno è clandestino, dunque, nell’universo narrativo di Costanza Quatriglio, tutti hanno pieno diritto di cittadinanza. Così ancora nel bellissimo Breve film d’amore e libertà (2010) che riprende uno dei personaggi del Mondo addosso, l’afghano Mohammad Jan in una struggente video lettera. Il ragazzo, diventato adulto, lavora come mediatore culturale a Roma e cerca di riprendere contatto con la madre che si è risposata. Il film (12’) è un piccolo thriller dell’anima fatto di telefonate senza risposta. La madre all’inizio si nega. Non lo riconosce. Non capiamo perché. Poi uno zio spiega che il nuovo marito, che lavora per il governo, se scopre che ha dei figli in Occidente, potrebbe ucciderla o ripudiarla. Ma Mohammad Jan non si arrende. Attende un piccolo segnale da Kabul, mentre lo spettatore è condotto fino al cuore dell’odissea contemporanea dei corpi migranti. Ma un’anima divisa in due è anche quella di Nada Malanima nel documentario Il mio cuore umano (2009). Nada, che in spagnolo vuol dire niente, è una ragazza di 15 anni, minuta come uno scricciolo – tanto che l’hanno soprannominata “il pulcino” – che dalla campagna toscana si ritrova catapultata sotto i riflettori al Festival di Sanremo del ’69 con la hit “Ma che freddo fa”. Il film parla soprattutto del rapporto con la madre, una madre che conosce l’ospedale psichiatrico, l’elettroshock e la sofferenza ma al tempo stesso domina la vita della figlia con la sua volontà assolutista di vederla sul palcoscenico. A costo di uno strappo dall’infanzia che, a tanti anni di distanza, è ancora doloroso e assurdo. Ancora una storia di passaggio, di identità prima imposta e poi conquistata, che parte dal libro autobiografico della cantante. Un film musicale che conferma quanto la musica – il jazz di Paolo Fresu in L’isola o il tema indimenticabile di Paolo Buonvino per terramatta; – sia materia viva e visiva nel cinema di Costanza Quatriglio. Già al lavoro su una nuova soglia da attraversare.


di Cristiana Paternò
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