Se L’odio di Kassovitz ispira (oggi) un festival per «costruire il futuro»
Appunti sulla prima edizione del TreSeiZero promossa dall’Antimafia Pop Academy di Roma.

Trent’anni fa, proprio in questi giorni, La haine (L’odio) di Mathieu Kassovitz vinceva il premio per la miglior regia al Festival di Cannes, inaugurando un percorso che l’avrebbe annoverato tra i film-culto dell’ultimo decennio del Novecento. Critica e incassi hanno premiato una narrazione lucida e mai retorica della banlieue parigina nella complessa rete di elementi sociali e culturali che dettano le sue peculiarità. Quel racconto in bianco e nero immerso nelle tensioni e negli scontri tra manifestanti e polizia, dopo il pestaggio di un giovane straniero fermato dagli agenti e ridotto in fin di vita, non era però sfuggito ad alcune infime polemiche. Qualcuno forse ricorderà che durante il red carpet della prima cannense i poliziotti garanti dell’ordine pensarono di voltare le spalle al cast in segno di disapprovazione. Eloquente indizio della deriva di una società tutt’altro che solidale cui sembrava già predestinata ampia parte del globo.
Non è certo un caso che l’ÀP – Antimafia Pop Academy abbia scelto proprio La haine come filo rosso su cui snodare il programma della prima edizione di TreSeiZero – Media Pop FEST, a Roma il 16 e 17 maggio scorsi. Un nuovo festival «per discutere di presente e costruire futuro» a partire da produzioni artistiche che hanno avuto un forte impatto sociale, politico e culturale nell’immaginario collettivo. Come già il film di Kassovitz, l’ÀP, associazione che da vent’anni opera nei campi di ricerca, informazione, denuncia e sensibilizzazione per il contrasto socio-culturale delle mafie e la promozione dei diritti, ha scelto di mettere a fuoco le periferie senza la lente distorta di certa politica becera, colpevole di falsare la narrazione suburbana. Nessun grandangolo, solo induttivi primi piani che, attraverso dibattiti con ospiti, performance rap, monologhi teatrali e installazioni artistiche, hanno potuto restituire al pubblico un totale quanto più autentico delle nostre periferie.
Nonostante abbia ormai varcato la soglia dell’età adulta, La haine non sembra solcato da perniciose rughe. Ha ancora la forza di alimentare un serio dibattito socio-politico sul presente, ben oltre i confini geografici in cui è stato concepito. Di fronte a sempre crescenti disuguaglianze, la parabola di Vinz, Saïd e Hubert ha fornito una pista efficace per riflettere oggi su DDL sicurezza, dissenso, repressione, libertà d’informazione, processi educativi e marginalità sociale, provando a indagare come sia cambiata nel tempo la condizione delle periferie e di chi le abita. Nel film, Vincent Cassel, davanti allo specchio, colpiva con una metaforica pistola imitata dalla sua mano quella società in cui non si sentiva riflesso. Saïd Taghmaoui rivendicava un’inversione dei rapporti di potere modificando con una bomboletta la frase già tratteggiata su un cartello: Le monde est à nous e non à vous. Questo spirito ha guidato l’ÀP nell’allestire il programma del festival, che ha debuttato proprio con il titolo Il mondo è nostro: negli spazi di via Contardo Ferrini 83 si sono avvicendati molti ospiti, dalla senatrice Ilaria Cucchi all’attore Peppe Lanzetta; dall’attivista e street artist Laika allo scrittore Christian Raimo, fino ai portavoce di realtà sociali come Amnesty International e Lucha y Siesta. Il fotografo Daniele Napolitano ha realizzato una mostra sui cambiamenti, urbanistici e antropologici, delle città, raccontando come la lotta per la casa e l’educazione popolare possano essere strumento di emancipazione e autodeterminazione.
L’odio che animava, in modo speculare, i personaggi del film di Kassovitz e la (respingente) realtà che essi abitavano è diventato, in questi due giorni romani, un termine su cui confrontarsi, fino a penetrare nei meandri della giustizia, del malessere, della rabbia. Senza dimenticare le occasioni di riscatto che possono nascere da nuovi luoghi educativi di inclusione, ma anche da peculiari linguaggi come quello dell’Hip Hop (l’ÀP ha promosso il progetto Keep It Real – Comunità in cammino per testare l’efficacia dell’Hip Hop a fronte della povertà educativa e culturale nei contesti marginali di cinque città italiane).
La partecipazione dello sceneggiatore Maurizio Braucci e della regista Roberta Torre al talk inaugurale Dici a me? L’odio 30 anni dopo si può dire abbia dato un corpo alle due anime dell’ÀP. Collaboratore abituale di registi come Claudio Giovannesi e Leonardo Di Costanzo, Braucci ha più volte raccontato come le mafie sfruttino disuguaglianze e marginalità per farne leve di consenso e manodopera nelle attività illecite. Non solo con l’ideale “trilogia” di adattamenti da Roberto Saviano (sue le sceneggiature di Gomorra, Tatanka e La paranza dei bambini), ma anche realizzando in proprio graffianti cortometraggi o romanzi come Il mare guasto. La vulnerabilità di certe frange di Italia con carenti sistemi di welfare si rispecchia chiaramente nei giovanissimi personaggi di altri piccoli gioielli nati dalla penna di Braucci, come L’intervallo diretto da Di Costanzo o Due soldati di Marco Tullio Giordana (evocativo, fin dal titolo, di un arruolamento cui pochi ragazzi che vivono nel disagio riescono a sottrarsi). Roberta Torre ha incarnato la declinazione più energicamente (e musicalmente) pop dell’ÀP, che pure sperimenta linguaggi creativi per rivolgersi ai giovani intrappolati in una condizione di eterna emergenza, scommettendo sulla scuola come primo presidio di cultura antimafia e laboratorio permanente di democrazia e diritti. Tano da morire, Sud Side Stori, ma anche Angela: il cinema di Roberta Torre ha scelto i toni iperbolici del musical e un’ironia mai corriva o banalizzante per raccontare le mafie e le realtà marginali dell’Italia meridionale, costruendo una satira mordace che si nutre di una rabbia non poi così lontana da quella di Kassovitz e dei suoi personaggi. Sembrano tutti gridare: «Il mondo è nostro», come ci ricorda anche l’ÀP in un festival cui va il merito di illuminare le crepe più profonde della nostra società. Nella speranza collettiva che non occorra scomodare ancora L’odio nelle future edizioni.

di Francesco Pascali