Un simple accident
La recensione di Un simple accident, di Jafar Panahi, a cura di Marco Lombardi.

Un simple accident non è il solito film di Jafar Panahi, come alcuni critici hanno detto, bensì è il film che meglio di tutti riesce a girare intorno al nucleo espressivo tipico del regista iraniano nel modo più cinematografico, cioè coniugando il bisogno (politico) di dire con il bisogno (cinematografico) di saper raccontare: una Palma d’oro assolutamente meritata, quindi.
La storia è quella di uno dei tanti imprigionati e torturati dal regime iraniano, nel caso specifico di un semplice scioperante che un giorno incontra per caso il torturatore di tanti anni prima. Dopo averlo rapito, raccoglie intorno a sè altri prigionieri del tempo per essere certo di non sbagliarsi, visto che dal di fuori parrebbe un amorevole marito e padre di famiglia. Il meglio del film consiste nella vivisezione di quel bisogno (umanissimo) di vendetta, bisogno nel quale lo spettatore si riconosce per una buona parte della storia fino al suo depotenziamento naturale, perché quella rabbia non ha comunque modo di essere soddisfatta, naeanche attraverso la vendetta.
Tutto questo risulta (cinematograficamente) evidente grazie al fatto che due di questi torturati sono una fotografa, che si unisce al gruppo con tutta la sua attrezzatura, e gli sposi che deve fotografare, con i rispettivi abiti matrimoniali. È in particolare il vestito della sposa a generare un cortocircuito grottesco, al limite del surreale, teso a evidenziare l’amaramente ironica inutilità, ai limiti della stupidità, di un sentimento che significa mettere da parte ancora una volta la felicità del presente in nome di un passato doloroso che andrebbe solo elaborato, pur anche al prezzo di una fatica sovraumana.
La vendetta potrà a questo punto compiersi oppure no, non ha più importanza: quello che purtroppo comunque rimarrà è il riecheggiare continuo di certi rumori sinistri nella mente del protagonista, a evidenziare quanto il passato non può comunque essere rimosso, solo (faticosissimamente) “accolto”. Per sopravvivere.

di Marco Lombardi