The Grand Budapest Hotel

Chi ha amato (e ovviamente continua ad amare) il cinema del quarantacinquenne texano Wes Anderson ha ormai imparato che ognuno dei film da lui scritti e diretti fino a oggi potrebbe essere letto e presentato come la geniale riproposizione della stessa ricetta preparata però ogni volta con ingredienti diversi mescolati in maniera differente in ciascuna delle occasioni.

E anche questo The Grand Budapest Hotel non fa eccezione alla regola perché, pur nella sua bizzarria di divertissement lunare ai confini tra la visione surreale e la malinconica meditazione sulle radici culturali del mondo occidentale e sulla travagliata storia del cosiddetto «secolo breve», di quella fortunata ricetta ripresenta tutti gli ingredienti vincenti mescolandoli ancora una volta col talento indiscusso di demiurgo del racconto e di costruttore dell’immagine che da entrambe le parti dell’oceano Atlantico anche i suoi più tenaci detrattori non possono non riconoscergli.

Partendo come spunto molto vago dalle opere dello scrittore austriaco Stefan Zweig – che tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso fu probabilmente lo scrittore più famoso e di moda dell’intero pianeta –, Wes Anderson e il suo fido coautore Hugo Guinness raccontano cinquant’anni di vita di un imponente e lussuoso albergo posto sul cucuzzolo quasi inaccessibile di un picco alpino nell’immaginaria repubblica dell’est Europa di Zubrowka.

Per ripercorrerne fasti, tribolazioni e lunga crisi in stile impero Ottomano i due hanno scelto di farlo attraverso il personaggio del sussiegoso maître degli anni ’30, ovvero l’impeccabile Monsieur Gustave, il quale ne è al contempo il nume tutelare, il ferreo custode del rigido protocollo ma soprattutto il depositario dei segreti e delle confidenze dei facoltosi clienti che lo frequentano (soprattutto quelli di sesso femminili, coi quali l’azzimato maestro di cerimonie dimostra di avere un feeling del tutto particolare sotto le lenzuola destinato, in almeno un’occasione, a lasciare significativi strascichi in termini di eredità post mortem).

Ed è in questo clima sospeso tra la rievocazione nostalgica, l’aura da operetta stile Al cavallino bianco e la strizzata d’occhi al grande cinema degli anni ’30 (impossibile non farsi venire in mente il Lubitsch di Vogliamo vivere! e di Scrivimi fermoposta, il Mamoulian di Love me Tonight o ancora il Goulding di Grand Hotel passando per The Good Fairy di Sturgess o addirittura The Mortal Storm di Borzage) che Wes Anderson allestisce il suo abituale teatrino corale facendo ruotare intorno all’albergo e al suo impeccabile custode cinquant’anni di Storia europea a sua volta condita dalle microstorie di tutta la variopinta compagnia di giro che, come in ogni altro suo film, ne popola le sequenze trasformando il tutto in un helzapoppin di febbrile genialità capace di prendere alla sprovvista a ogni scena.

A metà tra dramma, commedia brillante di formazione, rievocazione romanzata della grande Storia e fiaba surreale dai colori pastello, The Grand Budapest Hotel nasconde i suoi più intimi segreti dietro un’impalcatura da falso giallo che fa da pretesto al tutto mettendo in moto la narrazione e creando così i presupposti perché la vicenda venga raccontata: accusato di aver ucciso una ricchissima ma attempata contessa (sua amante insieme a molte altre clienti di analogo censo e anagrafe) che gli ha lasciato in eredità un prezioso dipinto rinascimentale, Gustave deve evadere in maniera rocambolesca dalla galera da fumetto in cui viene sbattuto per poter dimostrare la propria estraneità ai fatti e permettere ai non molti buoni in circolazione di avere la meglio sui troppi villain da striscia della Marvel che ne minacciano il quieto vivere.

Ad aiutarlo è un valletto clandestinamente immigrato nel piccolo paesino dei Sudeti (altra geniale zampata di Anderson che si permette il lusso di toccare un tema delicatissimo quale quello dell’immigrazione clandestina affidando proprio a questo personaggio un decisivo ruolo da deus ex machina), il quale prima apprende da Gustave i segreti per diventare un buon maitre partendo dal gradino più basso della scala della servitù, finendo poi non solo con l’ereditarne la prestigiosa posizione, ma addirittura col divenire proprietario dell’intera struttura (nonché voce narrante che racconta l’intera vicenda nel gioco di scatole cinesi che costituisce la sceneggiatura).

Tra celebrazioni cromatiche in tinta pastello che trasformano in visioni pop quelle che dovrebbero essere accurate ricostruzioni d’interni d’epoca, scenari volutamente di cartapesta a sottolineare la pretestuosità di quanto viene narrato e continui colpi di scena affidati non solo alla scrittura ma sopratutto alla scritturazione di un incredibile numero di star hollywoodiane chiamate a raccolta per interpretare camei di anche pochi minuti, Anderson riesce una volta di più ad ammaliare il pubblico col suo modo cerebrale ma gaio di intendere l’arte dell’intrattenimento. E cioè quel voler allestire teatrini corali in cui la vita viene esposta nel suo lato più surreale senza che nessuno abbia mai l’impressione che l’artificio sia pura artefazione e che l’oggetto del raccontare sia davvero ciò che si vede e non invece qualcosa d’altro e più profondo nascosto tra le pieghe dell’immagine.

Ancora più che in altre sue prove del passato prossimo e recente, in questa sua ottava regia (che è stato l’evento di apertura all’ultima Berlinale) Wes Anderson converte una storia qualunque che forse chiunque potrebbe raccontare in un esercizio di stile che probabilmente nessun altro cineasta dei giorni nostri oserebbe azzardare senza correre il rischio di essere accusato di contorsionismo cerebrale gratuito e di fumo venduto come se fosse arrosto di prima qualità.

E che di un finissimo esercizio di stile si tratti lo dimostrano non pochi elementi cardinali che sorreggono l’impalcatura teorica e la messa in scena stessa del film. A partire dal complesso congegno narrativo a base di scatole cinesi che impiega ben tre diverse cornici esterne prima di approdare al cuore della vicenda: ai giorni nostri una ragazza sfoglia le pagine di un volume intitolato «The Grand Budapest Hotel» di fronte al monumento a Stefan Zweig (mai nominato in maniera esplicita e definito semplicemente «L’Autore») che per incanto prende vita e si trasforma nello scrittore stesso. Il quale, nel 1985, ricorda quando da giovane era stato ospite in quel mitico hotel e lì vi aveva conosciuto per pura casualità un anziano signore che si era rivelato essere il proprietario della struttura stessa.

Ma, come in una sorta di moderna rivisitazione de Le Mille e una notte (o forse ancora di più con echi della sceneggiatura del pasoliniano Decameron per come viene gestito il complesso gioco di incastri narrativi) ecco che a sua volta l’anziano signore si rivela essere l’essere l’ex valletto-aiutante di Monsieur Gustave che, nel 1968 e con il Grand Budapest ormai semplice ombra di se stesso, ripercorre in voice off la propria movimentata giovinezza sotto l’ala protettrice del proprio maestro e mentore. Ovvero la vicenda vagamente tinta di giallo e di nero del dipinto conteso e della contessa avvelenata che è al centro del film.

A fare di questo frullato di cinema (auto)referenziale e rimasticazioni letterarie una palestra di sperimentazioni di vario tipo è poi anche un’altra coppia di fattori non certo trascurabili. Non pago di frastornare lo spettatore col gioco delle scatole che si aprono mostrando altre scatole che a loro volta nascondono ulteriori sorprese piene di citazioni colte di cinema e di atmosfere d’altri tempi, il pirotecnico regista texano pratica anche del funambolismo tecnico esibendosi in una scorribanda di storia dei formati cinematografici del tutto in linea con l’operazione nostalgia che è al centro del tutto ma forse anche in velata polemica con l’appiattimento estetico che caratterizza la produzione di buona parte dei suoi colleghi contemporanei: per raccontare la parte di film ambientata ai giorni nostri viene infatti usato il normale formato panoramico, mentre si passa al wide screen (quello stretto e lungo tipo CinemaScope) per immergersi negli anni ’60 e ci si prosciuga in quello ristretto e quasi quadrato (il cosiddetto classico Academy) per dare credibilità alla più consistente porzione degli anni ’30.

Troppo originale e creativamente indipendente per essere apprezzato in toto a Hollywood, Anderson è sempre riuscito a non inimicarsi i potentati della mecca del cinema grazie a un’altra caratteristica tipica del suo modo di fare cinema: ovvero quello di affidare i ruoli dei moltissimi gregari che popolano le sue scorribande narrative a grandi star del firmamento americano e internazionale, che ormai da anni accettano la paga sindacale minima pur di vedersi nel cast di uno dei suoi film. Cosa questa che accade puntualmente anche qui con una parata di stelle che forse nessun altro cineasta potrebbe mai vantare di avere al proprio servizio. Anche perché molto spesso si tratta di brevi comparsate di pochi minuti per personaggi abituati a fare la parte del leone in produzioni miliardarie.

Ecco quindi che accanto alla straordinaria coppia dei protagonisti (con Ralph Fiennes che fa da tutore in tutti sensi al dotatissimo carneade guatemalteco Tony Revolori, il suo valletto-aiutante) vorticano in un valzer martellante attori del calibro di F. Murray Abrahams (il valletto da vecchio che racconta la storia all’Autore), Jude Law (l’Autore da giovane nonché depositario della storia del vecchio proprietario dell’albergo), Tilda Swinton (irriconoscibile contessa ottantenne con capigliatura cotonata e turrita in stile Simpson), Adrien Brody (strepitoso nei panni dell’isterico figlio della contessa uccisa), Willem Dafoe (in quelli di un violento killer paranazista sguinzagliato dal personaggio di Brody per recuperare il prezioso dipinto sparito), o ancora un redivivo Jeff Goldblum (in quelli di un azzimato notaio che finisce a sua volta assassinato dal killer Dafoe), i fratelli Owen (grandi habitué del cinema di Anderson dai tempi de I Tennenbaum), Edward Norton (che sembra uscito dal buzzatiano Il deserto dei tartari nei panni di un implacabile poliziotto con baffetto e scriminatura austroungarici) o addirittura Harvey Keitel (quasi irriconoscibile con cranio rasato e tatuaggi diffusi nelle vesti di un compagno di galera e di evasione di Gustave).

Girato nei sontuosi studios berlinesi di Babelsberg e a Görlitz (tra Sassonia tedesca e Polonia) e sorretto da una magnifica colonna sonora scritta da Alexandre Desplat che incalza le immagini senza mai dare tregua, più ancora degli altri film scritti e diretti da Wes Anderson The Grand Budapest Hotel è un’opera destinata a dividere sia il pubblico dei suoi affezionati cultori che la critica perché richiede allo spettatore un atto di fede visiva e concettuale che va molto aldilà del semplice acquisto del biglietto costringendo come fa a cento minuti di immersione in apnea in un abisso fatto di infiniti strati che si sovrappongono l’uno sull’altro e rendono non per tutti la visione proprio per la sontuosa e inarrivabile ricchezza dei suoi contenuti.

Trama

Nell’immaginario paese dell’est Europa di Zubrowka Gustave H., concierge del mitico Grand Budapest Hotel ma insieme depositario dei più riposti segreti e desideri dei facoltosi ospiti dell’albergo, soprattutto di sesso femminile, deve affrontare uno dei momenti più difficili di una lunga e onorata carriera quando viene accusato di aver avvelenato una delle ricchissime ospiti della struttura per impossessarsi di un suo prezioso quadro rinascimentale.


di Redazione
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