The Dreamers
Non è un caso che il maggio francese sia nato alla Cinémathèque e che per le strade di Parigi studenti e uomini di cinema hanno urlato il nome di Langlois (il fondatore della cineteca licenziato dal governo dell’epoca) ben prima di quello di Marcuse. In effetti il fantasma del ’68 si è materializzato per la prima volta attraverso le immagini del cinema, con la rivolta della Nouvelle Vague (Godard, Truffaut, Chabrol, Rohmer) nei confronti del “cinéma de papa” (le opere “ben scritte”, romantiche e narrative), con la forza dell’immaginario scagliato contro le regole della forma e della gerarchia, con l’esprit de finesse contro l’esprit de géometrie. Rivoluzione in gran parte borghese e intellettuale, resa dei conti dei figli con i padri. Rivoluzione generosa e, come tutte le rivoluzioni, ambigua e con il destino segnato. Nel cinema i sogni fanno presto a trasformarsi in incubi, gli slanci ideali a rivelarsi velleitari, e i protagonisti possono anche essere mostri, morti viventi, vampiri. Bernardo Bertolucci in The Dreamers racconta il ‘68 sul filo della memoria (senza nostalgia), dell’utopia (vista con distacco), del sogno che prelude al risveglio. Isabelle, la giovane protagonista, dice ad un certo punto di essere nata nel ’59 sugli Champs Elysées, proprio nei giorni e nel luogo in cui Belmondo (Fino all’ultimo respiro di Jean Luc Godard) incontrava Jean Seberg, americana a Parigi, così come americano è Matthew, l’altro protagonista di The Dreamers. E nel sottofinale del film, sempre Isabelle cerca la morte ripetendo il suicidio infantile messo in atto da Mouchette nell’omonimo film di Robert Bresson. E’ il cinema che si rincorre nel cinema in un continuo gioco di specchi e citazioni, fino all’irruzione inevitabile della vita (la pietra che spacca il vetro della finestra, il fumo acre dei lacrimogeni che prende alla gola, l’azione violenta che costringe a scelte definitive).
Da una parte il suicidio politico (la deriva dell’eversione), dall’altra il trasalimento morale, la presa d’atto che la vita è altrove, che non si può essere per sempre “spettatori innocenti”, e che la memoria-cinema ha senso solo se diventa esperienza, memoria storica, crescita.
Nel raccontare la storia di amore e seduzione, sesso e conoscenza di tre ragazzi del ’68, Bertolucci realizza uno dei film più poetici, appassionati e sconvolgenti che siano mai stati fatti sul cinema e la vita, sull’inganno piacevole dei sogni, sulla giovinezza e il destino che ci aspetta. Visionario, claustrofobico ma pieno di punti di fuga (i sogni, le citazioni cinefile, le scene madri), realistico fino al limite estremo (lo sperma, il sangue verginale o mestruale come materiali di scena) e fantastico fino alla vertigine, il set del film è percorso e accarezzato dalla macchina da presa con una voracità instancabile e trascinante, con uno sguardo diretto e senza indulgenza, con un tempo del racconto rivolto al passato ma che pure guarda al presente della nostra vita. Basti pensare alla scena in cui i giovani protagonisti si confrontano a cena con i genitori o alla scena in cui Théo cuoce delle uova mentre la sorella viene deflorata sul pavimento.
Dialoghi, sentimenti, malesseri, che appartengono all’oggi come a ieri. Ha detto Bertolucci che The Dreamers è una storia di ragazzi di oggi ambientata nel ’68. Io direi che è una storia senza tempo, che semplicemente parla di noi. Anche se le manifestazioni politiche, le assemblee all’università o nelle fabbriche, gli scontri di piazza, le barricate e le petizioni, restano fuori dal film, The Dreamers è forse il lungometraggio più politico fatto da Bertolucci. Perché del ’68 coglie la forza eversiva del sogno e dell’utopia, quella – la sola – che non è stata tradita né sconfitta.
di Piero Spila