The Canyons

Se ci fosse un campionato riservato esclusivamente ad autori discontinui ma di indiscusso talento, il sessantottenne Paul Schrader sarebbe un osso veramente duro da battere. Sceneggiatore di alcuni dei titoli più cult dei tardi anni ’70 e di tutti gli anni ’80 (basterebbe citare Yakuza per Pollack, Complesso di colpa per De Palma, Taxi Driver, Toro scatenato e L’ultima tentazione di Cristo per Scorsese, Incontri ravvicinati del terzo tipo per Spielberg o ancora Mosquito Coast per Weir), dal 1978 Schrader è passato dietro la macchina da presa alternando lungometraggi diventati emblematici di un’intera epoca (da Hardcore del ’79 e American Gigolo dell’80 a Il bacio della pantera dell’82 e Mishima – Una vita di quattro capitoli dell’85) a momenti di black out creativo che hanno coinciso con gli ultimi suoi dieci anni di produzione (e, anche in questo caso, basterebbe citare titoli poco riusciti quali il prequel de L’esorcista Dominion, la rivisitazione di American Gigolo in The Walker o l’irrisolto tentativo di rilettura dell’olocausto in Adam resurrected).
Una tendenza questa che sembra purtroppo essere confermata da The Canyons, scritto dal forse sopravvalutato cantore degli anni ’80 Bret Easton Ellis (dal vangelo di Meno di zero ai più recenti ritratti dell’America del disagio in American Psycho e Glamorama) e incentrato sulle torbide passioni e tradimenti che caratterizzano la turbolenta relazione di un giovane produttore cinematografico figlio di papà e la sua fidanzata, un’ex modella che ha appeso i vestiti al chiodo e non fa nulla per nascondere di essere attaccata al conto in banca del compagno.
Quando il giovane produttore nonché manipolatore di vite altrui – malato di sesso e della possibilità di immortalare la versione filmata delle proprie orge con tutte la più aggiornata chincaglieria elettronica disponibile sul mercato – accetta di ingaggiare come protagonista del suo nuovo film un giovane aspirante attore compagno della propria assistente, ignora quale sia il legame che ha in passato unito il nuovo venuto alla sua compagna del momento. E sarà proprio il germe del sospetto e della gelosia a innescare una spirale di ricatti e vendette destinate a finire nel sangue.
Presentato a Venezia fuori concorso (dove produsse effetti di grande spasso dovuti al ridicolo involontario di molte delle situazioni di presunta prurigine che vengono mostrate con grande dovizia di inutili particolari in molti segmenti del film) e distribuito negli USA tramite piattaforme non convenzionali ed esterne alla normale circuitazione nelle sale, The Canyons sembra molto lontano dal cinema di assoluto rigore morale e di scrupolosa indagine psicologica cui Schrader ci ha abituati negli anni sia come sceneggiatore che come regista in proprio.
Se il film fosse infatti soltanto quel che sembra essere a una prima lettura molto superficiale, il giudizio da dare sarebbe davvero impietoso perché non sono molti gli aspetti degni di essere salvati. A partire dalla vicenda stessa, ovvero il marciume morale di Hollywood Babilonia, già visto e rivisto in fin troppe salse. Per passare alla povertà visuale fin quasi eccessiva (motivata solo in parte dalla scelta di girare il tutto in economia digitale) con cui il film si presenta al pubblico. E per finire con la prova disarmante degli attori che interpretano i quattro ruoli cardine della vicenda, con un porno attore autentico – James Deen – chiamato a recitare senza poter contare su quel tipo di performance che l’hanno reso più o meno celebre e due esordienti assoluti pescati su internet accanto ai quali la bizzosa Lindsay Lohan sembra quasi un’attrice decente.
Ovviamente The Canyons non può essere soltanto questo. Anche perché la coppia costituita da Paul Schrader e da Bret Easton Ellis è più di un campanello d’allarme per chi si ponga di fronte a un prodotto in parte spiazzante come il film che hanno realizzato insieme: emarginati dalla Hollywood che conta (anche se per ragioni molto diverse), i due sembra quasi che abbiano voluto vendicarsi di questo ostracismo forzato accanendosi contro la mecca americana del cinema denigrandone in modo quasi programmatico la pochezza e la superficialità con un film che non fa nulla per nascondere le proprie intenzioni di mettere alla berlina proprio quelle caratteristiche tipiche di un mondo capace solo di specchiarsi nella propria banalità autoreferenziale.
Ciò che infatti sembra stare maggiormente a cuore alla coppia di regista e sceneggiatore non è tanto la coerenza e la credibilità della torbida vicenda di sesso morboso e di contorsioni interiori che stanno al centro del plot, quanto piuttosto l’analisi dell’invadenza che un certo tipo di tecnologia usa e getta che domina il nostro presente, finendo anche con l’azzerare una certa idea di cinema e della sua fruizione tradizionale. E non è un caso – a conferma di come i due vogliano mettere subito in chiaro che il cinema nella sua versione holliwoodiana è morto senza sapere di esserlo – che il film si apra con una carrellata che mostra una Los Angeles inedita fatta tutta di sale cinematografiche irreparabilmente chiuse e vive ormai soltanto come monito di un passato troppo rapidamente sepolto in nome di un progresso tecnico che può portare soltanto alla plastificazione.
Letto in questa chiave, The Canyons va quindi molto aldilà di quella patina superficiale di pruriginosa divagazione voyeuristica che in molti hanno voluto sposare come unica interpretazione possibile dell’intero percorso narrativo, limitandosi così alla pura e semplice superficie visibile. Scavando al di sotto di questo strato grossolano che non può essere la sola intenzione da parte di un autore abituato a meditazioni ben più sofferte e articolate sul mondo che lo circonda, è invece più che plausibile che Schrader voglia far riflettere il pubblico sull’atto di morte di un certo modo di fare cinema e sulla plastificazione di persone e stati d’animo che domina il nostro modo di essere oggi. Se oggi tutto è falso ed effimero perché affidato alla rappresentazione fallace del reale che i telefonini e i mini computer ne possono restituire, ecco che allora il fare cinema come lo si faceva una volta rischia di non avere più molto senso.
Si spiegherebbe quindi così la scelta dei protagonisti con Lindsay Lohan nei panni della torbida Tara (lei principessa del gossip di basso profilo e qui generosamente mostrata nelle sue grazie fisiche già nettamente intaccate da una vita troppo spericolata per non lasciare il segno ovunque) e addirittura con un porno divo del calibro di James Deen chiamato a recitare per la prima volta nei panni di un personaggio autentico cui non si chieda solo di impegnarsi in virtuosismi sessuali.
Allo stesso modo non può passare inosservato anche il fatto che buona parte dei finanziamenti siano stati polemicamente raccolti sulla piattaforma di crowdfunding chiamata Kickstarter e che gli attori, se si eccettuano i due protagonisti, siano stati scelti con un ardito e modernissimo sistema di casting on line chiamato Lead the Cast. E in ultimo la scelta di una Los Angeles che non sembra più avere nulla né della tentacolare e traviante megalopoli che Bret Easton Ellis non ha mai smesso di raccontare sin dai tempi del suo bestseller d’esordio Meno di zero, ma che lo stesso Schrader aveva fatto assurgere a personaggio aggiunto di molti dei suoi film. Le strade di Los Angeles sono ormai canyon di solitudine dove tutto è fasullo e nemmeno la più artefatta riproduzione della vita vera che va sotto il nome di cinema può ormai fare granché per salvare.
Trama
Un giovane produttore cinematografico ossessionato dal sesso viene trascinato in un vortice di passione e violenza nel momento in cui scopre che la propria fidanzata, un’ex modella che asseconda i suoi vizi per motivi di interesse, ha avuto in passato una relazione con il giovane attore alle prime armi cui ha deciso di affidare il ruolo di protagonista nel film che ha in progetto di produrre.
di Redazione